martedì, febbraio 28, 2006

Pane di fiori come antidoto all'antisemitismo



Ho iniziato a scrivere questo post in occasione dell’assassinio di Ilan Halimi e con lo scopo di dedicarlo ai Coraggiosi di tutte le nazioni di ieri e di oggi, con l’irremovibile convinzione che “l’umano” sconfigge sempre “il barbaro” e che alla fine dei conti, i selvaggi rappresentano la minoranza.
Si tratta di una storia vera che ha avuto luogo a Salonicco, ove prima della Seconda Guerra Mondiale la comunità ebraica raggiungeva le 56.000 persone, mentre alla fine ne rimasero solo alcune centinaia. Questo post vorrei arrotolarlo, infilarlo in una bottiglia e buttarlo nel mare della rete con la speranza che possa far riflettere.
Agli inizi del XX secolo un ebreo residente ad Amsterdam, antiquario e commerciante in diamanti, laureato, amante dei viaggi e giurato single, arrivò a Salonicco, di cui aveva sentito tante cose, ma che non aveva mai visitato. Qui, conobbe una giovanissima ebrea e vuoi per l’atmosfera della città, vuoi per il sotlàch (famoso come kazan ntepi) o per l’arrodeadikos de merendjéna (involtini di melanzane), perse la testa per gli occhi di questa donna e decise di abbandonare il suo palazzo nella piazza dei musei di Amsterdam e di fondare la sua casa a Salonicco.
Costruì una grande e ricca casa, ove i punti strategici erano rappresentati dalle due cucine: in una si facevano solo dolci e nell’altra tutto il resto. La casa era sempre piena di persone, in quanto la coppia era molto aperta ed amava circondarsi di persone di tutti i gruppi sociali, indipendentemente dalla loro religione. La migliore amica della coppia diventò una greca cristiana ortodossa, amante della cucina, in cui passava tantissime ore, ed appassionata dello studio di ricette religiose. Da lei, la nostra coppia, acquisì tantissime “strane” abitudini non ebraiche: fare voti alla Madonna, fare Koliva (grano bollito mescolato con zucchero, cannella, noci ed uva passa, utilizzato dai cristiani ortodossi durante le cerimonie funebri), fare la Fanuropita (tipico pane dolce che si prepara per il giorno della Befana), giustificandosi con la scusa che erano buoni di sapore e che “alla fine dei conti, ebrei, cristiani e musulmani tutti un’anima abbiamo”.
In cucina, le due amiche passavano ore ed ore a chiacchierare, a provare e riprovare ed a cercare di conquistare, per l’ennesima volta, i loro mariti attraverso un piatto “diverso”!
La figlia piccola della coppia, la più bella di tutte, stava sempre in cucina a seguire sua mamma, con l’amica cristiana, cimentarsi nell’arte culinaria. All’interno della stessa cucina, la piccola formò la convinzione che, indipendentemente dalla razza o dalla religione, nella vita erano più forti le donne e che il suo sesso fosse la sua arma segreta.
Quando a Salonicco arrivarono i “barbari”, la vita divenne buia. Furono fatti i primi elenchi dei membri della comunità ebraica e furono distribuite le prime stelle gialle. Il capofamiglia, con l’esperienza acquisita dai suoi viaggi e dai suoi lavori, capì subito che le cose andavano malissimo e prese la decisione di fuggire, ma non ci riuscì perché troppo tardi.
L’amica greca cercò di salvarli nascondendoli, ma i “barbari” ebbero una soffiata e dopo averla torturata scoprirono il loro nascondiglio. Nonostante fosse malconcia per le torture subite, la donna riuscì ad arrivare alla stazione dei treni, dove i suoi vicini ebrei, insieme agli altri ebrei, erano stati radunati per andare, nessuno sapeva dove.
La scena della partenza in treno, nessuno dei sopravvissuti riusciva a raccontarla interamente ai figli e ai nipoti dopo la guerra. Tutti iniziavano a piangere; neanche la figlia piccola e più bella, che era riuscita a sopravvivere grazie alla sua testardaggine e a tornare viva dai campi di concentramento, mentre il resto della famiglia era diventata cenere nei forni crematori, pur non avendo mai pianto nemmeno ai funerali dei mariti (tre!!), dei figli e dei nipoti.
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Lì, al binario, la vicina greca, riuscì ad avvicinarli, zoppicando, e ad augurargli un arrivederci. Per rincuorare la piccola figlia della coppia, che era la sua preferita, in quanto compagna fedele nei “viaggi” quotidiani per le strade dei sapori, le mise in mano un pezzo di pane. Un pane diverso, con un sapore di fiori. Il pane con il sapore dei fiori era l’ultimo sapore dell’amata Salonicco.
Anni dopo, in Israele, ormai nonna, narrò questa vicenda a suo nipote, che aveva trasformato in un piccolo grande cuoco, poiché ce l’aveva sempre in cucina, tra i piedi, dove si preparavano piatti esotici e si raccontavano storie, supervisionandolo ai suoi studi ed inculcandogli sistematicamente e per bene nella mente la convinzione che “tutti gli uomini sono un sangue”. Il rapporto instauratosi tra nonna e nipote, solidificato durante i loro “viaggi” nell’arte culinaria che avvenivano in cucina, era tale che la nonna si permetteva di entrare nella sua vita in modo brusco anche nelle questioni sentimentali. Il nipote, spinto dalla nonna, si trasferì a Parigi, dove divenne uno studioso della filosofia del cibo e poi a New York, dove aprì il suo primo ristorante-laboratorio.
La nonna non appena cominciò a sentire avvicinarsi la fine della sua vita, chiese al nipote un grande favore. Trovare la ricetta del pane con il sapore di fiori. L’ultimo sapore che ha avuto di Salonicco, volle che fosse anche l’ultimo della sua vita. Per il nipote, visto l’immenso amore e rispetto che nutriva per lei, sarebbe stato meglio se gli avesse chiesto di tornare in Europa attraversando l’Atlantico a nuoto. Cominciò la ricerca, andò a Salonicco e chiese in tutta la Grecia del nord se conoscessero questo pane, affidandosi anche all’aiuto di amici per cercare i parenti dell’amica della nonna. Ma niente! Tornando a New York conobbe dei greci a cui il pane di fiori era familiare. Gli promisero che in estate sarebbero scesi tutti in Grecia e lo avrebbero aiutato a cercarlo.
Le condizioni di salute della nonna iniziarono a peggiorare ed il pane non si trovava. Il nipote cominciò a pensare solo a questo. Lo sentiva come il minimo atto di rispetto verso la storia della sua famiglia. Inoltre, a fargli del male era anche il ridicolo della storia... come cuoco era diventato famoso per la sua cucina “diversa”, per le nuove ricette che aveva lanciato, per le sue idee “fresche” sui menù... e non riusciva a trovare la ricetta del pane. Inutile dire che provò di tutto. Passò interminabili notti facendo bollire delle rose, impastando l’infuso con la farina... essiccò dei gelsomini e li tagliò finemente mischiandoli alla farina... sfornò diversi pani e li mandò in aereo a Tel Aviv, ma niente! Il sapore non era quello.
In uno dei suoi viaggi in Grecia, passò da Salonicco e fece un salto in una libreria. Essendo un cuoco scettico nei confronti di gran parte dei libri di cucina, mentre guardava dei libri di fotografia, gli cadde l’occhio su un titolo “Sapori greci, il libro del pane”... lo aprì e venne fulminato dalla frase “pane di fiori”. Per pochi minuti sentì la sua testa martellare. Il fiore della ricetta dell’amica della nonna era il luppolo, famoso anche con il nome di “erba della birra”... doveva essere questo. Sapore più morbido della rosa e più pesante del gelsomino. Telefonò ai suoi amici e chiese se quella pianta si poteva trovare selvatica dalle parti di Salonicco e della Grecia del nord. Gli risposero di si! Nei giorni successivi cominciò la ricerca della pianta magica, ma ricevette la brutta notizia della morte della nonna. Fu la cosa più brutta mai capitatagli nella vita.
Durante i funerali ebraici si portano di solito dei dolci, in quel funerale però arrivarono da Atene trenta grosse pagnotte, impastate una ad una dalle mani del nipote e delle tre amiche della nonna, che erano ancora in vita. Quell’impasto, si fece come doveva essere fatto. Si raccontarono tante storie, si versarono lacrime e si rise.
Durante i funerali, una delle sue exragazze, che “grazie” alla nonna aveva lasciato, gli disse: “non sei riuscito a trovare la ricetta in tempo perché Dio ti ha punito. E questo perché non credi in niente”.
“Io? Credo! Che non credo! Credo solo nella bontà delle persone. E in nient’altro”.
“Chi era questa con cui sei uscito!” “Nonna ti prego! Non te lo permetto più! Ho venticinque anni, non puoi più comandare il mio uccello!”
“Al tuo uccello, uomo perso, comanderò finché non ti sposi. Tienilo ben presente”.
Così mi lasciai con la ragazza del funerale.

Pane di fiori

Il fiore della ricetta è il luppolo o erba della birra, pianta con un bel fiore bianco e molte foglie lungo tutto lo stelo. Una volta raccolto, lo si fa a mazzetti, e lo si secca all’aria. Attenzione non sotto il sole.

Preparazione: prendiamo una manciata di fiori secchi di luppolo e li facciamo bollire per 2 o 3 minuti in un bicchiere d’acqua. Togliamo dal fuoco e aggiungiamo un cucchiaino di zucchero. Copriamo e lasciamo riposare 2 o 3 ore. Dopodichè scoliamo e aggiungiamo all’infuso della farina, tanta quanta serve ad ottenere una pastella densa. La copriamo con un panno di lana (per farla respirare) e la mettiamo vicino ad una fonte di calore. La lasciamo 3 o 4 giorni, finché non otteniamo il lievito di pane, quando sulla superficie compariranno delle piccole bollicine. Mescoliamo il lievito con 1 Kg di farina ed acqua tiepida, tanta quanta serve per ottenere l’impasto. Copriamo e lasciamo in luogo caldo per 15 ore. Questo perché il lievito di pane di luppolo non è così “forte” quindi ci vuole parecchio tempo, affinché il pane lieviti e, quando questo avviene, al massimo è cresciuto una volta e mezzo di volume. Su una tovaglia di cotone, cospargiamo un po’ di farina e facciamo con l’impasto delle pizzette. Stendiamole un po’ e lasciamole seccare all’aria girandole una o due volte. Prima che si secchino completamente, sfreghiamole frantumandole tutte. Lasciamo seccare e raccogliamo in un sacchetto di stoffa. Questo è il “trachanas di fori” che utilizziamo ogni volta che vogliamo impastare il pane. Semplicemente per ogni Kg di pane servono due manciate di trachanas che ammorbidiamo in acqua tiepida (è con questa pastella che prepariamo il pane). Attenzione il segreto, in questa ricetta, è di mantenere una temperatura costante durante tutto il procedimento. Esiste anche un modo più semplice di preparare il pane di fiori ma con il trachanas di fiori il sapore è immensamente più profondo e lascia un buonissimo retrogusto.

domenica, febbraio 26, 2006

La fame come antistrofe.

... I am haunted by the vivid memories of killings & corpses & anger & pain . . . of starving or wounded children, of trigger-happy madmen, often police, of killer executioners . . ... I have gone to join Ken if I am that lucky...
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Tra la Scilla della fame e la Cariddi dell’iperconsumismo scorre il mondo attuale e questo fatto si dimostra, quasi simbolicamente, dalla quasi simultanea edizione negli Stati Uniti, pochi giorni dopo il passaggio catastrofico dell’uragano “Katrina”, di due libri che sono in stretta relazione, anche se prendono avvio da punti di partenza completamente diversi.
Il primo, di Sharman Apt Russel, tratta della fame: “HUNGER. An Unnatural History .” è il suo titolo (ed. “Basic Books”). Il secondo, firmato da William Leith, , è intitolato “THE HUNGRY YEARS. Confessions of a Food Addict.” (ed. “Gotham Books”). Tutti e due tentano di parlare di due argomenti taboo, della fame e dell’obesità, e tutti e due cercano di toccare i due poli traumatici della moderna esistenza.
Esitiamo ad accettare la fame come regola”, scrive Russel. “Ci meraviglia e ci repelle ciò che fanno le persone quando hanno fame. E siamo completamente indecisi per le colpe di ognuno davanti allo straordinario alto numero di coloro che muoiono di fame nel mondo."
Non dobbiamo dimenticare che oggi nel mondo 800.000.000 di persone sono sottoalimentate, ma anche negli Stati Uniti, il Paese dell’abbondanza, un numero superiore a 30.000.000 di persone, 1 su 10, vive in condizione “di insicurezza alimentare”. In entrambe gli antipodi, le memorie di uno scrittore in sovrappeso - ornato con interviste del filosofo francese Jean Baudrillard, fatte dal famoso Dr. Atkins - di Susie Orbach, autrice del libro “Fat is a Feminist Issue”, sono in conclusione la straziante confessione: “nell’orgia della polifagia, a cui ogni tanto si da l’obeso psichicamente disturbato, la tua autostima ferita è un biglietto verso la libertà."
La liberta? Quando i significati si distorcono così tanto, non dobbiamo chiederci niente a riguardo dell’abuso, del disuso e del nulla che domina la nostra epoca!

giovedì, febbraio 23, 2006

Le Cartellate

Anche oggi, giovedì grasso, ho deciso di postare un'altra ricetta del Carnevale... le cartellate sono, infatti, uno dei dolci più tipici della Puglia. Sono dette, a seconda delle diverse varianti dialettali, carteddate, frinzele, scartagghiate, crùstoli
Sono un dolce molto antico, come testimonierebbe una pittura rupestre del VI sec. a.C. rinvenuta a Bari, in cui viene raffigurata la preparazione di un dolce assai simile, di probabile origine greca, associato alle offerte fatte a Demetra, dea della terra, durante i misteri Eleusini. Agli albori del Cristianesimo, queste frittelle rituali si sarebbero trasformate in doni alla Madonna, cucinati per invocarne l’intervento sulla buona riuscita dei raccolti. Le Cartellate sono, inoltre, citate come “Nuvole et procassa” in un resoconto del 1517, stilato in occasione del banchetto nuziale di Bona Sforza, figlia d’Isabella d’Aragona.
In Grecia si prepara un dolce del tutto simile, detto diples, la cui forma è associata proprio come le cartellare alle fasce che avvolgevano Gesù Bambino.
Secondo alcuni il nome deriverebbe da “carta” o “cartoccio”, per la consistenza croccante della sfoglia, secondo altri deriverebbe, invece, dal latino tardo "cartellus" o "cartallus" (canestro, cesta) o dal siciliano "cartedda" (cesta) per la forma tipica che la fa rassomigliare ad un cesto intrecciato.
Possono essere passate nel vincotto o nel miele…
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Cartellate al vin cotto di fichi e cartellate al miele
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Ingredienti: 1kg di farina, 200 ml di vino bianco secco, 300 gr di olio di oliva, 1kg di vincotto di fichi o miele, 10 gr. di sale, 50 ml di acqua tiepida, olio per friggere.
Mettete la farina a fontana e nel centro versate il vino e l'olio. Sciogliete il sale nell’acqua tiepida, versate nell’impasto e lavorate bene. Formate delle palline che stenderete in una sfoglia sottile. Con la rotella tagliate delle strisce della larghezza di 3 o 4 cm. Piegate in due le strisce, in modo che abbiano uno spessore pari alla metà, e arrotolate su se stesse a spirale e fatele asciugare e riposare per circa 12 ore. Friggete le cartellate in abbondante olio bollente. Immergetele nel vincotto di fichi o nel miele. Potete cospargerle di cannella o confettini colorati.

domenica, febbraio 19, 2006

Carne vale!

Oggi i riti del carnevale sono frutto di una società consumista, in cui conta solo ciò che può essere comprato e venduto (viaggi, discoteche, dolci, vestiti e gadget). La storia e lo spirito del carnevale sono diventati ormai solo un mito…
Ma qual è la storia del carnevale?
Le sue radici affondano certamente nelle pratiche pagane legate ad alcune feste. I Saturnalia, ad esempio, in onore del dio Saturno, erano le celebrazioni di fine ed inizio anno (andavano dal 17 al 23 dicembre), in cui si sovvertiva l’ordine gerarchico della società. Si festeggiava la perduta età dell’oro del regno di Saturno, idealizzata dai poeti latini, l'età in cui non esistevano né guerre, né contrasti, in cui non vi era bramosia di guadagni, né schiavitù… e la terra produceva così tante messi che il cibo era in abbondanza per tutti. Durante questa festa, agli schiavi veniva data la possibilità di farsi beffe del padrone, di sedere alla sua tavola e di ubriacarsi, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe meritato frustate, carcere o addirittura morte. Per questo motivo nella settimana dei Saturnalia, come ci attestano Seneca e Plinio il Giovane, Roma era in preda al caos.
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Tuttavia, il Carnevale come noi lo conosciamo è invenzione del medioevo… innanzitutto nel nome: escludendo la ricostruzione etimologica più nota di carne vale (addio alla carne), si è riconosciuto che il nome attuale ha origine altomedievale. Il termine, per la prima volta riferito a questo periodo dell’anno, si trova in un atto redatto a Subiaco nel 965. Inizialmente indicava solo i giorni che precedevano immediatamente la quaresima. Poi in vista dell’imminente periodo di privazioni (non solo in ambito alimentare), la “vigilia” del digiuno divenne un periodo variabile da pochi giorni a molte settimane.

Ma è soprattutto nell’ultima settimana (che culmina nel martedì grasso) che si concentrano i festeggiamenti… ed il consumo di carne a tutti i livelli. Il significato antropologico di questo fenomeno è il voler sottolineare l’elemento stagionale: si consumano le scorte dell’inverno, in modo tale da propiziarsi abbondanza e fertilità. Il significato assunto dalla carne era così importante che in alcune città, come Norimberga, i festeggiamenti erano assegnati alla corporazione dei macellai!

Si sviluppano, inoltre, una serie di comportamenti di tipo folcloristico, di origine precristiana, accomunati da alcune caratteristiche come l’abbondanza di cibo, la sospensione di alcuni divieti, la sottolineatura rituale del passaggio stagionale. Proprio quest’ultimo aspetto inizia a svilupparsi in modo particolare a partire dall’XI secolo. Già nel XII secolo, a Roma e a Londra, le cronache testimoniano alcune usanze pubbliche da parte di alcuni gruppi di persone, per lo più giovani, che si organizzano per ritualizzare questo passaggio, oltre che da un periodo all’altro dell’anno, anche da una determinata condizione, o classe d’età, all’altra. Il carnevale diviene quindi l’occasione per celebrare alcune forme di combattimento, a cui prendono parte varie parti di una stessa città o categorie diverse di cittadini, che si affrontano a suon di bastonate o a colpi di sassi e pugni. Queste forme di festeggiamento, inizialmente tollerato dalle autorità comunali, vengono poi pian piano regolamentate, a causa dei rischi che ne derivavano per l’ordine pubblico.

Da sempre le maschere sono connesse al carnevale… ma per quale motivo? Legata, fin dalle origini, a comportamenti precristiani poi confluiti nel carnevale (i travestimenti ferini connessi alle kalendae januarii) , la maschera assolve varie funzioni: simbolo delle forze della natura, del mondo degli animali e delle sue energie vitali, oppure del mondo dei morti (sarebbero una personificazione dei defunti, eseguita per esorcizzarli e per propiziarseli). La maschera, poiché assimila chi la porta alle sue fattezze, viene condannata dalla chiesa come idolo satanico. Condannata anche dalle autorità civili, per motivo di ordine pubblico, l’uso della maschera riesce a sopravvivere… e nel Rinascimento travestimenti e maschere diventano diffusi, specialmente nelle corti, tanto da dar vita ad uno specifico settore produttivo e commerciale (famose erano nel Cinquecento le maschere di Modena).

Una poesia del XIII secolo descrive la lotta tra due personificazioni: Quaresima, odiato dalla povera gente ed amato dai potenti, muove il suo esercito (fatto di varie specie di pesci, anguille, aringhe e balene armate di spade fatte di sogliole) contro Carneficina (Carnevale), amato dai suoi sudditi perché semina abbondanza e raccoglie intorno a sé le carni, le pietanze condite con le salse, i formaggi e le torte armate di sciabole fatte di maiali. La battaglia tra i due è cruenta e semina morte, fin quando arriva Natale in aiuto di Carneficina e lo porta alla vittoria. Per Quaresima invece c’è la condanna all’esilio, che dura un anno intero, ad eccezione di un periodo di sei settimane e tre giorni. .

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Carnevale ha sempre rappresentato l’abbondanza del grasso, del cibo “che fa gonfiare il ventre e causa flatulenza”… in quei giorni circola cibo in quantità e tutti vanno in giro in cerca di frittelle e dolciumi!

Forse non tutti lo sanno, ma il Carnevale ha rappresentato per molto tempo un periodo importante nell’iniziazione sessuale maschile. Rappresentava l’apprendistato attraverso cui i giovani dovevano passare prima di arrivare al matrimonio e comprendeva tutta una serie di oscenità e scurrilità. A Rouen, ad esempio, la confraternita carnevalesca dell’Abbazia dei Minchioni stabiliva, che nei giorni di grasso, i giovani uomini avevano il “diritto di studiare e mettere a profitto l’arte di amare”.
Ma il carnevale era soprattutto mangiare fino a scoppiare. Bisognava preferire gli alimenti che avrebbero incrementato le anime-peto: quelli flatulenti come i piselli, i fagioli e le fave… Alcuni anni fa a Biella, il lunedì grasso, nel rispetto di una vecchia tradizione gastrorituale, venivano cucinati, in enormi calderoni, fino a dieci quintali di fagioli.


Il carnevale prima di morire faceva testamento, come prima di lui avevano fatto le figure dell’asino o del maiale portati in processione. In una redazione del Testamentum asini del 1470 circa, l’animale offre le parti del suo corpo agli astanti, specificando “culum do sufflantibus” (ossia ai soffiatori rituali), che dovranno preoccuparsi di ricostituire le anime-peto del mondo. Le ossa, il cranio e le pelli dovranno essere conservate in attesa che un’anima, un soffio vitale arrivi a rivivificarle. Il maiale e l’asino, tuttavia, non sono gli unici animali protagonisti di questa festa; l’orso ebbe, infatti, dal medioevo ad oggi un ruolo fondamentale nei riti carnevaleschi. In questi giorni, ad esempio, in Sardegna si svolgono diverse rappresentazioni in cui il carnevale ha la maschera dell’orso… A Fonni (Nuoro) S’Urthu viene tenuto ad una catena da due Buttudos, mentre tenta di imbrattare con la fuliggine le ragazze. S’Urthu, infine, muore ritualmente, per poi risorgere sotto i colpi di cironia (una specie di frustino allusivo del fallo) che i giovani, vestiti di nero e con i visi sporchi di fuliggine, gli danno. Anche qui ritornano i rituali di morte-rinascita e fecondità. Secondo il mito, infatti, questo animale uscirebbe dalla tana la vigilia di San Biagio, il 2 febbraio, giorno della Candelora. Durante il tempo passato nella tana, egli sarebbe stato in contatto con le anime dei defunti, di cui si sarebbe riempito la pancia, per poi “espellerle” al momento del risveglio con l’aiuto di alcune piante lassative…

A partire dal Quattrocento il carnevale subirà una serie di attacchi, soprattutto in seguito ai tentativi di moralizzazione ad opera di uomini come Savonarola e della Controriforma, perché considerata una festa troppo pagana. Ma riuscirà a sopravvivere nelle sue caratteristiche di fondo per moltissimo tempo. Sono le tendenze di questi ultimi decenni, con la scomparsa dell’incidenza della quaresima nella vita quotidiana e con l’affermazione di una cultura che non assegna più lo stesso significato alla ritualità, che hanno fatto dimenticare il senso originario del carnevale.

... e allora in attesa della quaresima festeggiamo il carnevale con una serie i dolci "grassi" e fritti della tradizione. Per iniziare, quelli che io preferisco... gli struffoli napoletani!


Struffoli


Ingredienti: 2 uova, 2 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di olio, 1 cucchiaio di liquore strega, 1 cucchiaio di succo di limone, la buccia grattugiata di 1 limone, 450 gr di farina, 2 bustine di vanillina, 1 cucchiaino scarso di lievito in polvere, 200 gr di miele, 1 lt di olio di arachidi (per friggere).

Impastate sulla spianatoia la farina con le uova, lo zucchero, il liquore strega, l’olio, il succo e la buccia del limone, la vanillina ed il lievito. Lavorate bene l’impasto e lasciatelo riposare per circa un’ora. Fate dei bastoncini del diametro di 1 cm e tagliateli a pezzettini di ½ cm e friggeteli un po’ alla volta, in una friggitrice o in una pentola alta, finché assumono un colore dorato. Deponete gli struffoli fritti su carta assorbente. In una padella capiente fate sciogliere il miele a fuoco dolce e versateci dentro gli struffoli (e se volete un po’ di scorsette di arancia e cedro canditi). Mescolate delicatamente, con una spatoletta di legno, fin quando gli struffoli non siano ben amalgamati con il miele, che nel frattempo ha assunto una consistenza collosa. Rovesciate gli struffoli su un piatto ed aiutandovi con la spatoletta e con le mani unte di olio date la forma che volete (a corona, tonda, ovale…). Decorate con confettini colorati.

lunedì, febbraio 13, 2006

Eros, amore... ed afrodisiologia

Esiodo, contadino e poeta, nella Teogonia, racconta che prima sorse il Caos, che per lui non era una divinità ma soltanto un vuoto “spalancarsi”, esattamente ciò che rimane da un uovo vuoto quando gli si toglie il contenuto. Poi sorse Gea, dall’ampio seno, solida ed eterna sede di tutte le divinità che abitano lassù, sul monte Olimpo, oppure in lei stessa, nella Terra. Per ultimo sorse Eros, il più bello tra gli dei immortali che “scioglie” le membra e soggioga lo spirito di tutti gli dei e di tutti gli uomini. Anche Platone, nel Simposio, il primo saggio sull’eros scritto nella storia dell’umanità, attraverso le parole di Fedro sosteneva che la vita degli uomini non doveva essere condizionata, né dai legami di sangue, né dalle ricchezze, né da altro, tranne che dall’eros. Eurissimaco, a sua volta, segnalava che il dio Eros non limita la sua azione agli dei e agli uomini, ma estende la sua forza a tutto l’universo.
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Nel succedersi della storia, prendendo la parola, Aristofane espone la sua opinione sull’eros. Dice, allora, che inizialmente il corpo umano non era come quello che abbiamo ora, ma doppio. Avevamo, cioè, due corpi uniti in uno. Però, siccome gli esseri umani in un certo momento avevano osato mettersi contro gli dei, Zeus decise di punirli. Così, tagliò a metà i loro doppi corpi, facendo in modo che da ogni corpo venissero fuori due diversi uomini, che completavano l’uno l’altro. Dopo tale suddivisione, ogni corpo ricercava disperatamente la sua altra metà. Quando la trovava, la abbracciava e non faceva nient’altro, tranne aspettare di riunirsi con lei. Siccome le due metà non si interessavano né del cibo, né del sonno, la specie umana rischiava l’estinzione. Zeus, allora, ebbe pietà di loro e posizionò in ognuna delle metà degli organi genitali ed ordinò loro di innamorarsi e di accoppiarsi affinché si riproducessero. Per questo l’eros è la ricerca della nostra metà perduta. Ci innamoriamo in quanto desideriamo ritrovare la nostra unità perduta, in quanto abbiamo nostalgia della nostra vecchia natura completa.
Dopo Aristofane, Agatone sottolineava che l’eros è colui che porta la pace agli uomini e la bonaccia ai mari. E’ lui, inoltre, che fa addormentare i venti ed offre il sonno alle anime afflitte. L’eros, che fa scomparire la ferocia e dona soavità all’animo, è l’ornamento degli dei e degli uomini e tutti noi dobbiamo seguirlo fedelmente e venerarlo in ogni manifestazione della nostra vita.
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Infine, prende la parola il grande sovversivo Socrate. Egli, innanzitutto, dubitava che eros fosse una divinità e sosteneva che fosse un demone, cioè qualcosa a metà tra un dio ed un uomo. I suoi genitori erano Povertà e Poros. Era perennemente povero, trascurato, senza scarpe e senza casa… tutt’altro che bello. Non dormiva su un letto o su un materasso, ma sul pavimento, in campagna, in strada, sulla soglia, avendo come unico compagno la privazione. Era come suo padre, astuto intrappolatore dei belli e degli eletti, audace e coraggioso, macchinatore ed incantatore opportunista, che sapeva “curare” a volte con belle parole ed altre volte con erbe medicinali. Non aveva mai niente in grado assoluto e si trovava sempre in mezzo a cose diverse. Non era né perennemente ricco, né perennemente povero, ma mai ricco e mai povero.
L’eros, continua Socrate, è il desiderio nato all’interno della bellezza. Quando cioè qualcuno sente la necessità di partorire (o un figlio o un capolavoro), per guadagnarsi l’immortalità, si innamora e ricerca qualcosa di bello (sia nel corpo, che nell’anima) per partorirlo dentro di sé. Inoltre, esiste dentro di noi una “scala erotica” che ogni persona assennata deve salire. Nel primo scalino, l’uomo si innamora dei bei corpi. Dopodichè, riscopre la bellezza dell’anima, che è molto più importante di quella del corpo e comincia ad innamorarsi delle belle anime. Continuando, si innamora della conoscenza, della scienza, ed arriva in età avanzata all’ultimo gradino, ove si innamora della bellezza assoluta, dell’immortale ed eterna idea del bello. Ai giovani si adatta l’amore dei corpi, come maestro di bellezza, mentre l’amore per il bello si adatta alle persone in età avanzata.
Voglio sfuggire dalla trappola di annacquare con commenti teorici le diversità e le cose in comune che hanno l’eros e l’amore. Questi due sentimenti, infatti, vengono frequentemente utilizzati per esprimere la stessa cosa sia dalle persone comuni, che utilizzano la parola amore per dichiarare i loro sentimenti erotici, sia da persone che sono in grado di distinguere le diversità tra questi due sentimenti. Quando Stendhal, infatti, dice che “l’amore è il godere, il vedere, il toccare ed il sentire con tutti i tuoi sensi”, si riferisce all’eros che abbraccia tutto l’universo. Anche quando Balzac definisce l’amore come “la poesia dei sensi” sicuramente ha in mente l’eros.
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Nel “Giardino dei profumi” dello sceicco Nefzevi (XVI secolo), Abu el Hailuk era “duro” per trenta interi giorni, poiché mangiava tante cipolle. Durante questo periodo "dormì" con un numero mitico di donne. Forse è meglio non parlare del rapporto della poesia con la vita, ma realmente, che è successo a questo arabo così fortunato? La cipolla ha determinato una sete del corpo e cercava delle compagne per spegnerla? Forse ha partorito dentro di sé la passione per tutte queste donne? O forse le desiderava da prima e la cipolla lo ha aiutato a sentirsi così estasiato al punto da superare i limiti della “carne” sul sentimento?
Queste tre semplici domande delineano i tre corrispettivi approcci all’"afrodisiologia".
Approccio viagra: mangio questo ed in combinazione forse con quello… eccomi qua! Qualcosa come super stallone. Fast food – fast sex.
Approccio voodoo: nelle diverse civiltà ci sono decine e decine di magie e scongiuri per far si che un uomo o una donna si innamori di qualcunaltro. Secrezioni femminili o il mestruo nel caffè, erbette che devono bruciare con olii speciali in una determinata fase lunare, mentre in contemporanea lo stregone recita delle formule magiche. E allora, è difficile, visto che accadono queste cose che avvenga un miracolo con metodiche più semplici… con un determinato piatto…?
Approccio bon viveur: come un bel tramonto in una spiaggia deserta, una passeggiata con la luna piena nel bosco, una bella musica, la sensazione dell’erba sul palmo della mano, un corpo nudo nella penombra, così un pasto ricercato con sapori equilibrati, e con il vino adatto ci fa sentire meglio. E quando ci sentiamo meglio vogliamo avvicinarci alla persone che desideriamo!
Forse sembrerò un po’ cinica con gli approcci precedenti, ma in nessun caso vorrei dubitare dell’ovvio, ossia che l’eros passa per lo stomaco.
E’ difficile in un post parlare dell’afrodisiologia, ma farò uno sforzo cercando di ritornavi nel futuro. Afrodisiaco è per tutti i popoli della terra l’aglio, indipendentemente dal fatto che noi occidentali se lo mangiamo non possiamo dire buongiorno tranne che per telefono. La melanzana era per il mondo ottomano, qualcosa a metà tra viagra e cocaina. Per il resto del mondo era semplicemente indifferente. Notevoli sono le proprietà del prezzemolo. La cannella, il cardamomo, il coriandolo, le uova, il pescato, le noci (chi non conosce l’abbinamento noci e miele?), l’olio di oliva… e mi fermo qui perché in definitiva sembra che non ci sia cibo che non sia stato associato all’eros. Non è che tutte queste cose siano delle favole? Non lo saprei dire. Forse si, forse no. Ma che differenza fa? Dimentichiamo forse che noi essere umani, oltre che di proteine, di grassi e di carboidrati, ci nutriamo anche di leggende? Del resto che cos’è l’eros! Secondo Oscar Wilde un “reciproco equivoco”. E allora, anche se così fosse ci piace equivocarci reciprocamente!
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Orata marinata
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Ingredienti: 1 Kg di orate, 600 ml di olio extravergine di oliva, 80 ml di succo fresco di limone, 50 ml di aceto bianco, sale, pepe, 2 cucchiai di spezie per la marinatura.
Ingredienti per le spezie per la marinatura: 3 cucchiai di coriandolo, 2 cucchiai di anice, 1 cucchiaio di sumak, 3 semi di cardamomo, 3 pezzi di anice stellato, 1/2 cucchiaino di masticha, 3 bucce di arancia essiccata.
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Laviamo le orate e le dividiamo in due filetti ciascuna. Togliamo le spine e la pelle. Mescoliamo l'olio, il limone, l'aceto, il sale, il pepe e i 2 cucchiai di spezie per la marinatura. Deponiamo i filetti nella marinatura e li lasciamo cuocere in un ambiente fresco per circa due ore, poi li mettiamo in frigorifero. Serviamo i filetti tagliandoli a fettine sottili.
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Con questo piatto vedo bene un Athiri della mia amata isola Santorino, in quanto equilibria il sapore aspro della marinatura ed avvolge le spezie.

lunedì, febbraio 06, 2006

Weekend ad Atene

Atene… il solo pronunciare il suo nome basta ad evocare storia e mito! Ogni volta che ci torno la trovo sempre uguale e sempre diversa… Uguale perché niente potrà mai annullare ciò che millenni di storia hanno plasmato nell’animo dei greci e nello spirito di questa città! Diversa perché negli ateniesi non si è mai spento il desiderio di far tornare la loro città il faro di civiltà e bellezza che era stata un tempo!
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Salire sull’Acropoli mi lascia sempre senza fiato, come la prima volta… attraversare i Propilei, con le sue candide colonne di marmo, suscita una grande emozione! Credi di essere tu a visitare l’Acropoli, ma in realtà è lei che ti osserva, che misura il fondo della tua anima. Quassù il vento, che non smette mai di soffiare, può raccontarti storie incredibili… di uomini grandi… e di uomini comuni, che qui hanno lasciato la loro preghiera! Solo osservando il Partenone si capisce il significato di perfezione, misura ed armonia… è il Tempio perfetto, il metro del mondo! Nonostante sia sempre popolato da una moltitudine di gente, se lo avvicini con amore, ti sembrerà deserto. E guardando la delicata perfezione delle Cariatidi posso capire come Lord Elgin, ebbro di passione, non abbia resistito al desiderio di portarsene via una.
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La vista della città dal Licabetto provoca un senso di smarrimento… tutto intorno un’infinità di case bianche a perdita d’occhio… e verso ovest, come un’oasi nel deserto, l’Acropoli si staglia tra cielo e mare, che al tramonto riflettono i raggi rosso fuoco del sole e spandono un bagliore dorato che ti avvolge e ti ipnotizza... e non puoi fare a meno di smettere di guardare e di perderti davanti a tanta bellezza. Il mito racconta che Atena per la costruzione dell’Acropoli avesse scelto una roccia più alta di quella su cui sorse, ma nel tragitto da Pallene, a causa della sua ira nei confronti delle figlie di Cecrope, l’avrebbe lasciata cadere nel luogo dove ancora oggi si trova… con il nome di Licabetto.

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Ancora una volta non ho saputo resistere al fascino di Kolonaki, il quartiere più vivace e commerciale della città, dove tutti gli ateniesi più facoltosi fanno shopping in boutique lussuose, passeggiano lungo le strade affollate e prendono il caffè in una delle tantissime caffetterie alla moda… già perché il caffè, per il greco di oggi, è ciò che l’agorà fu per gli ateniesi dell’antichità, è un punto d’incontro, di discussione, di confronto… e di approccio amoroso.

Voula e Panagiotis

Infine, per chiudere in modo speciale il mio soggiorno, la mia amica Voula mi ha portato a visitare Capo Sounio… uno dei luoghi più belli che abbia mai visto. Il capo, all’estremità meridionale dell’Attica, si trova su un promontorio a picco sul mare… “il promontorio sacro di Atene” che Omero cita nell’Odissea! E’ qui che Egeo, disperato perché credeva suo figlio Teseo morto, si gettò nel mare, a cui fu dato il suo nome. Ed il soffio del vento, insieme al lamento delle onde che si infrangono sulle rocce, sembra che piangano ancora la sua morte. Poseidone non poteva scegliere altro luogo all’infuori di questo per costruire il suo tempio. La vista del mare e delle isole è, infatti, qui avvolta da una luce quasi surreale, che al tramonto è un’esplosione di riflessi dorati… “Quella luce accecante, così trasparente e impenetrabile, così adatta a sottolineare i contorni delle cose, ma anche ad animarli, a risuscitare l’anima segreta…” come dice Franco Loi.

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Durante il soggiorno ad Atene non potevo non fare una passeggiata nella Grecia dei sapori di 2500 anni fa, con le specialità più rinomate dell’epoca, adattate all’oggi con grandissimo successo e che dimostrano inequivocabilmente il diacronismo dell’antica cucina greca.

L’idea dell’ “Αρχαίων Γεύσεις” è quella di far assaggiare ciò che i greci antichi mangiavano, nella stessa modalità in cui lo mangiavano… senza forchetta, solo con cucchiaio e coltello… in poche parole lezioni storico-gastronomiche nello scenario della Grecia antica.
Un team di studiosi e di ricercatori di manoscritti antichi ha cercato fonti riguardanti gli antichi simposi (banchetti) greci, trovando risposte su come mangiavano Platone ed Aristotele.
L’atmosfera è profumata di antico, con decorazione povera, in cui dominano la pietra, gli affreschi e gli archi… l’elemento greco antico si trova dappertutto in modo discreto senza diventare kitch e ti conduce ad un appuntamento con la Grecia dei sapori dell’epoca di Pericle.
Nell’antichità non si conoscevano le patate, il riso, lo zucchero, i pomodori e gli ingredienti principali erano rappresentati dalla carne e dal pesce accompagnati dalle verdure, dall’orzo, dal grano macinati grossolanamente e dal miele.
Il menù dei piatti è pieno di note bibliografiche che rimandano alla fonte del piatto in questione.
Nei primi tre volumi dei Deipnosofisti si fa riferimento al vino. In accordo a questo “Αρχαίων Γεύσεις” produce il suo vino e dispone di varie qualità di vino alla mescita bianco, rosso, di orzo e lo squisito “οινόμελο” (vino speziato al miele) offerto all’arrivo.
In sottofondo si ode una musica rappresentativa di strumenti antichi, che rilassa e accompagna il cibo senza disturbare la comunicazione o la conversazione degli ospiti.
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In questo viaggio unico nel gusto si deve assaggiare “κωλή εριφίου” (coscia di capretto con purè di ceci e porri, con formaggio, aglio e miele), “κρεωκάκκαβο” (pancetta di maiale con salsa agrodolce di miele, aceto, timo, purè di ceci ed aglio), “πρασσαία” (cavolo, rucola, sedano, asparagi, uova, pinoli, noci, uvetta, melagrana), “Τεύθις οπτή” (calamaro ripieno con spezie, verdure e formaggio alla griglia) e “Δελφάκειον οπτόν” (porcellino ripieno con formaggio, uova, fegatini, mele, castagne, pinoli, uvetta e spezie). Non bisogna dimenticare poi i “μελιτώματα” – dolcetti finali – come “ακρόδρυα παντανάμεικτα” (prugne secche, fichi secchi, noci, mandorle, datteri, arachidi, con miele dell’Attica con o senza yogurt), “σταιτίτας πλακούς” (tipo di crepes con farina e miele).
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Molto interessante e carina l’idea degli spazi privé (ανακλίντρων) ove una persona del gruppo viene votata come “συμποσίαρχος”, ossia capo del simposio, responsabile dei convitati. Negli anaklitri, inoltre, c’è l’occasione unica di ascoltare dal vivo la musica dell’avlitrida o del citaredo.
Il fascino del pensiero che in nessun altro luogo potete trovare ricette di 2500 anni fa renderà la vostra serata indimenticabile.
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