lunedì, novembre 05, 2007

Horror cibi

Recentemente è tornato alla ribalta (vedi qui e qui) un annoso problema, quello dell’adulterazione dei cibi. In passato abbiamo avuto il vino al metanolo, poi il pollo alla diossina, oggi la mozzarella con il latte in polvere, il pane alla calce...
Tutto questo ha dato vita ieri, come oggi, a campagne d’informazione che hanno giustamente messo in allarme i consumatori, i quali hanno preso coscienza dei pericoli che tutti i giorni rischia la loro tavola e di conseguenza la loro salute. Ma in loro si è fatta strada anche la falsa convinzione che tutto questo sia frutto di questo tempo, del crescente consumismo dell’Occidente, in cui domina un sistema produttivo cinico e spietato, volto solo ai guadagni che le grosse produzioni comportano a scapito della qualità. Di fronte a tale situazione si rimpiangono i tempi andati, irrimediabilmente perduti, in cui non esisteva alcuna diffidenza verso ciò che si mangiava, in cui il cibo era genuino e sano e non nascondeva alcuna insidia. La realtà dei fatti non è però così, tali comuni intendimenti sono del tutto falsi. Molte delle odierne paure alimentari, infatti, non sono altro che l’ultima espressione di un eterno rapporto conflittuale tra l’uomo ed il cibo, in cui hanno sempre trovato spazio truffe, timori di contagio e di intossicazioni.
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I consumatori del passato si trovarono non solo a far fronte al problema della fame e quindi della quantità, ma anche a quello della qualità del cibo. Tali paure alimentari, già a partire dal XIII secolo, sono espresse nella legislazione che regolava il commercio e nella manualistica alimentare. Gli statuti comunali e corporativi di questi secoli contengono, infatti, precise e ricche indicazioni sugli stratagemmi adottati dai commercianti per vendere la loro merce scadente, contraffatta o contaminata. Secondo tali fonti tre erano le principali categorie di alimenti su cui maggiormente si concentravano i timori dei consumatori, ossia carne, pesce e pane. Non che gli altri alimenti fossero al riparo dall’adulterazione, basti citare ad esempio i mille espedienti menzionati in alcuni manuali per “tagliare” il vino o il miele, ma l’attenzione maggiore dedicata dagli statuti a queste tre categorie di alimenti non lascia dubbio che fossero quelle più pericolose per la salute pubblica. Ovviamente in mancanza di una tecnologia del freddo la preoccupazione principale del legislatore era rivolta a carne e pesce, quelli cioè maggiormente deperibili. Per tale ragione si imponeva la loro vendita al giorno della macellazione o della pesca e a quello seguente, scaduto il quale si doveva passare alla salagione o alla cottura. La giusta freschezza degli alimenti era data da un accurato esame visivo ed olfattivo da parte del consumatore a cui il commerciante non poteva obiettare.
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Nonostante ciò esistevano vari stratagemmi a cui i venditori ricorrevano per depistare gli acquirenti. Il più diffuso era quello di tagliare l’animale nella zona del ventre ed insufflare aria al suo interno, per renderla artificialmente più distesa e tonica. Tale pratica era assolutamente vietata tanto più perchè ritenuta fonte pericolosissima di contagio, dall’alito umano alla carne dell’animale. La carne era controllata dal servizio municipale non solo per la freschezza, ma anche perchè ritenuta possibile vettore di malattia e fonte di contagio. Tra tutti gli animali quello più temuto e quindi controllato era senz’altro il maiale. Un primo controllo veniva effettuato sugli animali ancora in vita, con particolare attenzione alla lingua, ed un altro dopo l’abbattimento per verificare che non ci fossero larve incistate tra le sue fasce muscolari. A Parigi a seguito dell’ispezione sanitaria, l’orecchio veniva siglato se si riscontravano tracce leggere di contaminazione, mentre veniva tagliato se la malattia era diagnosticata con certezza. La testa del maiale fungeva quindi da vera e propria etichetta informativa per l’acquirente e quindi era obbligatorio esporla insieme alla carne dell’animale. Allo stesso modo il pesce ispezionato e giudicato atto alla vendita veniva inciso con un segno come garanzia di qualità.

Molta attenzione veniva prestata anche alla nutrizione del bestiame. Esisteva una bella differenza di prezzo ad esempio tra maiali allevati allo stato brado fuori le mura cittadine, che si cibavano solo di ghiande e radici, rispetto a quelli allevati entro le mura, cresciuti con scarti alimentari vari. Anche per il bestiame allevato in città e che si cibava di ogni lordura che trovava in giro, esistevano delle ordinanze che vietavano la macellazione e vendita di bestie vissute nei pressi di luoghi da cui avesse potuto attingere nutrimento sospetto.
Ad influenzare il consumatore medievale era soprattutto il colore del cibo, in particolare veniva prediletto su tutti il bianco. L’alimento bianco era in genere ritenuto più salubre di altri e non contaminato dalla corruzione organica. Si riteneva, infatti, che avesse il potere di neutralizzare la bile nera, ossia l’umore nefasto colpevole, secondo la medicina del tempo, di causare molteplici malattie. I commercianti, però, riuscirono a sfruttare questo luogo comune a proprio vantaggio usando vari espedienti. Illuminare il banco con molte candele serviva, ad esempio, a ridare al lardo ingiallito il candore perduto. O peggio c’era l’uso, peraltro a ragione severamente bandito, di sbiancare artificialmente il pesce impastandolo di calce.
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Non si deve poi dimenticare che furono i cereali a mietere il maggior numero di vittime per intossicazione alimentare. L’ergotismo, meglio conosciuto come “fuoco sacro” o “fuoco di Sant’Antonio”, era una malattia diffusissima in tutta l’Europa medievale, che nelle sue forme più acute portava alla morte, ma molto più spesso alla paralisi progressiva degli arti, alla gangrena e poi all’amputazione di questi. Il nesso con il fungo Claviceps purpurea della segale venne compreso secoli dopo, ma già allora si intuì una sua relazione con le annate di carestia. Durante questi periodi, infatti, la fame spingeva la popolazione a mangiare insieme ai chicchi sani anche quelli più grossi e dal sapore sgradevole attaccati dal fungo, che normalmente nelle annate di abbondanza erano scartati. Molto frequenti e non meno nocive erano poi le adulterazioni delle farine e quindi del pane. Erasmo da Rotterdam nei Colloqui si lamenta, ad esempio, che sulla tavola del suo ospite veneziano Francesco d’Asola viene servito pane in cui per un buon terzo è mescolata argilla!

Si può affermare con certezza, quindi, che ieri come oggi nulla è cambiato e che il cibo era e rimarrà sempre un grosso affare!