venerdì, novembre 20, 2009

Soutè di cozze "à la grecque"

In queste tiepide giornate romane ho approfittato del mio balcone per pranzare fuori e per godermi gli ultimi scampoli di sole prima dell’arrivo dell’inverno. Ho preparato così qualcosa che ricordasse le vacanze in Grecia ed i pranzi in riva al mare... in particolare la scelta è caduta su un soutè di cozze, che ho assaggiato in un posto vicino Methoni (località sul Golfo Thermaico a ovest di Salonicco) famoso appunto per l’allevamento di cozze!

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Incredibile a dirsi ma sino ad una trentina di anni fa, se si voleva mangiare cozze in Grecia si doveva andare nei pressi di Salonicco, a Kavala o in Calcidica oppure in un ristorante ateniese gestito da greci dall'Asia Minore; questi mitili erano infatti pressoché ignoti nel resto del Paese, poiché non crescono "selvatici" nell'Egeo, ma preferiscono le spiagge del nord-est del Paese, specialmente nei pressi del delta di un fiume o in luoghi con forti correnti che sono ricche di phytoplankton, di cui si nutrono.
In particolar modo le cozze “selvatiche” erano molto amate dagli abitanti delle coste turche dell’Egeo, che le mangiavano in vari modi... al vapore, fritte, con il riso o ripiene. Fu così che i greci, che nel 1922 dovettero abbandonare la Turchia, le introdussero in Grecia, in particolar modo in Macedonia e in Tracia, dove molti di loro si erano stabiliti.
Da allora l’allevamento delle cozze si è molto sviluppato in Grecia, che oggi, insieme alla Spagna, è uno dei maggiori esportatori nel nostro Paese. Il loro successo è dovuto soprattutto al rapporto alto di carne (succulenta e dal bel colore arancione) per mitile e di liquido.
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Ingredienti: 1 Kg di cozze, 5 cucchiai di evo, un cucchiaio di farina, una grossa carota, una grossa costa di sedano, il succo di un limone, un peperoncino fresco, sale.
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Pulite e lavate le cozze, mettetele in una casseruola, coperchiatele e ponetele sul fuoco per 5-6 minuti. Una volta che saranno aperte, toglietele dal guscio e mettetele da parte. Filtrate il loro liquido e mettetelo da parte. Fate soffriggere sedano e carota, tagliati a brunoise, in un tegame per qualche minuto; aggiungete la farina e mescolate bene. Versate il liquido e lasciate che si ritiri e si addensi. Infine aggiungete le cozze ed il succo di limone. Cuocete per altri 2-3 minuti. Servite con fettine sottili di peperoncino fresco.

giovedì, giugno 04, 2009

Maternità


“Voi siete gli archi da cui i figli, come frecce vive, sono scoccate in avanti.
L'Arciere vede il bersaglio sul sentiero dell'infinito, e vi tende con forza affinché le sue frecce vadano rapide e lontane.
Affidatevi con gioia alla mano dell'Arciere;
Poiché come ama il volo della freccia così ama la fermezza dell'arco.”
Kahlil Gibran
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Essere madri, dal momento del concepimento in poi, è un’esperienza difficile da descrivere. Significa entrare in un mondo di sensazioni sconosciute, in cui si alternano angoscia e serenità, paure, gioie, dubbi e certezze... in cui la memoria è sensoriale. Sono convinta che ogni donna divenuta madre ha subito un cambiamento irreversibile, in modo diverso, nel proprio spirito.
L’atto della nascita rappresenta il momento della separazione tra due esseri che si sono percepiti fin dal primo istante, che hanno scoperto durante nove mesi una certa reciprocità. Ma proprio grazie a questa reciprocità la rottura, rappresentata dalla nascita, non è mai definitiva; c’è una continuità nella vita di entrambi che non potrà mai spezzarsi... è una corda invisibile che li tiene uniti per sempre.
Solo quando la mia Polymnia è venuta al mondo ho potuto comprendere quanta gioia e quanta responsabilità si provasse nel dare le proprie cure la propria protezione ad un figlio. Grazie ad esse si crea un rapporto di complicità e di unità unico, che ti permette di imparare ad ascoltare e comprendere il suo linguaggio senza parole per poterlo così guidare nella sua vita di piccolo essere umano. Sophie Marinopoulos afferma che un bambino pensa a partire dai pensieri che riceve. Sono convinta anch’io di questo, è dallo spirito e dal pensiero della madre che un figlio è portato alla vita! E’ sul pensiero della madre che si appoggia quello del bambino. Essere madri significa interpretare e capire ciò che il bambino ci comunica per accompagnarlo nelle sue aspirazioni e non cercare di dargli ciò che noi vogliamo, cercando di farne un nostro surrogato.
La maternità è stata per me un avvenimento nuovo e sconvolgente, che mi ha assorbito completamente e mi ha allontanato per un po’ da ogni altro interesse... è stato un periodo di tempo necessario affinché il mio spirito e la mia vita ritrovassero un nuovo equilibrio!
Spero che tutto ciò possa farvi comprendere le ragioni della mia lunga assenza!

martedì, marzo 25, 2008

Il viaggio della speranza della sacra fiamma


La cerimonia di accensione della fiamma segna l’inizio dei giochi olimpici. Tale rito risale all’Antica Grecia, ove veniva tenuto acceso durante tutto il periodo delle celebrazioni delle Olimpiadi. Il fuoco sacro è stato reintrodotto solo nelle Olimpiadi di Berlino del 1936, su idea del professore tedesco e membro del comitato olimpico Dr. Karl Diem.
Ieri ad accendere la fiamma olimpica, mettendo la torcia in uno specchio concavo che riflette i raggi solari, davanti al tempio di Era, è stata la sacerdotessa Maria Nafpliotou.
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Per gli antichi greci, il fuoco, rubato agli dei da Prometeo, aveva una connotazione divina e per tale motivo era presente in tutti i santuari. Tale fuoco, frutto del Dio del sole Apollo, che rappresenta lo spirito dei giochi, ieri ha acquisito, per la prima volta dopo secoli, significato e sostanza. Per la prima volta il significato dell’ideale olimpico ha preso corpo attraverso la contestazione di un gruppo di attivisti, che reclamavano la libertà per il Tibet. La fiamma spirituale dei giochi è anche azione. E’ movimento, è contestazione di fronte a qualsiasi cosa buia che acceca e distrugge la nostra etica. Un intero mondo spirituale cerca il nostro aiuto, cerca uno spazio di esistenza ed autonomia, al di fuori delle mosse politiche di uno Stato che vuole essere definito socialista.
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La fiamma ha brillato ieri ad Olimpia, non lasciate la speranza che si spegni.


lunedì, novembre 05, 2007

Horror cibi

Recentemente è tornato alla ribalta (vedi qui e qui) un annoso problema, quello dell’adulterazione dei cibi. In passato abbiamo avuto il vino al metanolo, poi il pollo alla diossina, oggi la mozzarella con il latte in polvere, il pane alla calce...
Tutto questo ha dato vita ieri, come oggi, a campagne d’informazione che hanno giustamente messo in allarme i consumatori, i quali hanno preso coscienza dei pericoli che tutti i giorni rischia la loro tavola e di conseguenza la loro salute. Ma in loro si è fatta strada anche la falsa convinzione che tutto questo sia frutto di questo tempo, del crescente consumismo dell’Occidente, in cui domina un sistema produttivo cinico e spietato, volto solo ai guadagni che le grosse produzioni comportano a scapito della qualità. Di fronte a tale situazione si rimpiangono i tempi andati, irrimediabilmente perduti, in cui non esisteva alcuna diffidenza verso ciò che si mangiava, in cui il cibo era genuino e sano e non nascondeva alcuna insidia. La realtà dei fatti non è però così, tali comuni intendimenti sono del tutto falsi. Molte delle odierne paure alimentari, infatti, non sono altro che l’ultima espressione di un eterno rapporto conflittuale tra l’uomo ed il cibo, in cui hanno sempre trovato spazio truffe, timori di contagio e di intossicazioni.
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I consumatori del passato si trovarono non solo a far fronte al problema della fame e quindi della quantità, ma anche a quello della qualità del cibo. Tali paure alimentari, già a partire dal XIII secolo, sono espresse nella legislazione che regolava il commercio e nella manualistica alimentare. Gli statuti comunali e corporativi di questi secoli contengono, infatti, precise e ricche indicazioni sugli stratagemmi adottati dai commercianti per vendere la loro merce scadente, contraffatta o contaminata. Secondo tali fonti tre erano le principali categorie di alimenti su cui maggiormente si concentravano i timori dei consumatori, ossia carne, pesce e pane. Non che gli altri alimenti fossero al riparo dall’adulterazione, basti citare ad esempio i mille espedienti menzionati in alcuni manuali per “tagliare” il vino o il miele, ma l’attenzione maggiore dedicata dagli statuti a queste tre categorie di alimenti non lascia dubbio che fossero quelle più pericolose per la salute pubblica. Ovviamente in mancanza di una tecnologia del freddo la preoccupazione principale del legislatore era rivolta a carne e pesce, quelli cioè maggiormente deperibili. Per tale ragione si imponeva la loro vendita al giorno della macellazione o della pesca e a quello seguente, scaduto il quale si doveva passare alla salagione o alla cottura. La giusta freschezza degli alimenti era data da un accurato esame visivo ed olfattivo da parte del consumatore a cui il commerciante non poteva obiettare.
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Nonostante ciò esistevano vari stratagemmi a cui i venditori ricorrevano per depistare gli acquirenti. Il più diffuso era quello di tagliare l’animale nella zona del ventre ed insufflare aria al suo interno, per renderla artificialmente più distesa e tonica. Tale pratica era assolutamente vietata tanto più perchè ritenuta fonte pericolosissima di contagio, dall’alito umano alla carne dell’animale. La carne era controllata dal servizio municipale non solo per la freschezza, ma anche perchè ritenuta possibile vettore di malattia e fonte di contagio. Tra tutti gli animali quello più temuto e quindi controllato era senz’altro il maiale. Un primo controllo veniva effettuato sugli animali ancora in vita, con particolare attenzione alla lingua, ed un altro dopo l’abbattimento per verificare che non ci fossero larve incistate tra le sue fasce muscolari. A Parigi a seguito dell’ispezione sanitaria, l’orecchio veniva siglato se si riscontravano tracce leggere di contaminazione, mentre veniva tagliato se la malattia era diagnosticata con certezza. La testa del maiale fungeva quindi da vera e propria etichetta informativa per l’acquirente e quindi era obbligatorio esporla insieme alla carne dell’animale. Allo stesso modo il pesce ispezionato e giudicato atto alla vendita veniva inciso con un segno come garanzia di qualità.

Molta attenzione veniva prestata anche alla nutrizione del bestiame. Esisteva una bella differenza di prezzo ad esempio tra maiali allevati allo stato brado fuori le mura cittadine, che si cibavano solo di ghiande e radici, rispetto a quelli allevati entro le mura, cresciuti con scarti alimentari vari. Anche per il bestiame allevato in città e che si cibava di ogni lordura che trovava in giro, esistevano delle ordinanze che vietavano la macellazione e vendita di bestie vissute nei pressi di luoghi da cui avesse potuto attingere nutrimento sospetto.
Ad influenzare il consumatore medievale era soprattutto il colore del cibo, in particolare veniva prediletto su tutti il bianco. L’alimento bianco era in genere ritenuto più salubre di altri e non contaminato dalla corruzione organica. Si riteneva, infatti, che avesse il potere di neutralizzare la bile nera, ossia l’umore nefasto colpevole, secondo la medicina del tempo, di causare molteplici malattie. I commercianti, però, riuscirono a sfruttare questo luogo comune a proprio vantaggio usando vari espedienti. Illuminare il banco con molte candele serviva, ad esempio, a ridare al lardo ingiallito il candore perduto. O peggio c’era l’uso, peraltro a ragione severamente bandito, di sbiancare artificialmente il pesce impastandolo di calce.
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Non si deve poi dimenticare che furono i cereali a mietere il maggior numero di vittime per intossicazione alimentare. L’ergotismo, meglio conosciuto come “fuoco sacro” o “fuoco di Sant’Antonio”, era una malattia diffusissima in tutta l’Europa medievale, che nelle sue forme più acute portava alla morte, ma molto più spesso alla paralisi progressiva degli arti, alla gangrena e poi all’amputazione di questi. Il nesso con il fungo Claviceps purpurea della segale venne compreso secoli dopo, ma già allora si intuì una sua relazione con le annate di carestia. Durante questi periodi, infatti, la fame spingeva la popolazione a mangiare insieme ai chicchi sani anche quelli più grossi e dal sapore sgradevole attaccati dal fungo, che normalmente nelle annate di abbondanza erano scartati. Molto frequenti e non meno nocive erano poi le adulterazioni delle farine e quindi del pane. Erasmo da Rotterdam nei Colloqui si lamenta, ad esempio, che sulla tavola del suo ospite veneziano Francesco d’Asola viene servito pane in cui per un buon terzo è mescolata argilla!

Si può affermare con certezza, quindi, che ieri come oggi nulla è cambiato e che il cibo era e rimarrà sempre un grosso affare!

lunedì, ottobre 29, 2007

Il giro della Grecia in punta di forchetta: Monte Athos


Comminando nel deserto del Monte Athos: solo per uomini.
Chi cerca la pace interiore, non è necessario che vada lontano. Abbiamo accanto a noi un posto ove le misure umane non contano. Alcuni giorni nella spiritualità della penisola di Sithonia sono un’esperienza che ogni uomo dovrebbe vivere almeno una volta nella vita.
Il pellegrinaggio nel giardino della Madonna ha inizio dal molo di Ouranoupoli, situato accanto alla torre bizantina, simbolo della città. Da lì la piccola barca issa l’ancora alla volta un altro mondo, un mondo con una filosofia diversa, abitudini diverse, ora e data diversa, un mondo che vive in un’altra epoca, da qualche parte negli anni dell’Impero Bizantino. Un gruppo di soli uomini, accompagnato dai gabbiani che volano sulle loro teste, inizia con la loro barca ad avvicinarsi ai moli dei diversi monasteri incontrati lungo la rotta. Per primo gli si è presentato innanzi il molo Giovanitsa, del monastero serbo di Hilandariou e dopo quello del monastero bulgaro di Moni Zografou, due dei monasteri che custodiscono alcuni dei cimeli più importanti ed originali del Monte Athos.
La loro meta è il monastero russo, Moni Aghiou Panteleimona, che si adagia sulle rocce della costa occidentale dell’Athos. Si tratta di un’intera città con cupole bianche e verdi. Qua “suona” la seconda più grande campana del mondo, del peso di 14 tonnellate, che può essere ascoltata in tutta la penisola. E’ uno dei monasteri più luminosi e colorati della Montagna Santa. Dalle innumerevoli grandi finestre degli otto cupoloni penetra intensa la luce, facendo sì che tutto appaia surreale. Qui vivono pochi monaci anziani, che permettono ad un numero limitatissimo di persone di soggiornare. Il nostro amico è uno di essi.
La natura che circonda il monastero profuma di fiori, una varietà illimitata, di pini, ulivi, allori... testimonianza che ogni fiore, ogni cespuglio ed ogni albero ivi collocato è frutto di Madre Natura, lasciata in pace! Il posto è veramente benedetto. Ogni tanto, attraverso la fitta vegetazione, si aprono finestre sull’azzurro del golfo Siggitikos.
Appena si arriva al monastero si viene accolti con una processione di benvenuto. Vengono offerti tsipouro, loukoumi, caffé ed acqua e si assegnano le camere.
La camera assegnata al nostro amico ha un balconcino sospeso ad un’altezza di 80 metri sul mare, che gli permette di godere una vista magica, di sotto l’orletto della spiaggia, davanti a lui l’arcipelago ed in fondo il tramonto. Una prospettiva diversa nell’assaporare l’attimo...
E’ arrivata l’ora della cena, si sono fatte già le cinque di pomeriggio. Qui, nell’arca chiamata Athos gli orologi scorrono con l’ora bizantina, la giornata comincia con il tramonto del sole, cioè alle 12 in base all’ora locale. Sotto lo sguardo dei santi appesi sui muri si comincia a mangiare in modo silenzioso e l’unica voce che risuona è quella dell’anagnostis, il quale narra le vite severe degli asceti per prendere il sopravvento sulle sensazioni... il cibo è un pezzo inseparabile della teleturgia di ogni monastero ed è circondato dallo stesso raccoglimento che necessita anche la preghiera. Si servono del pesce con i carciofi, del pane e della feta. I cibi sono di una gustosità incomparabile, visto che per preparali si utilizzano ingredienti prodotti dagli stessi monaci, nei loro orti, nei loro vigneti e nei loro uliveti, che coronano ogni monastero.
Durante la notte, passata sul letto di ferro battuto, la luce della lampada a petrolio ha fatto pure lei la sua parte nel creare l’atmosfera misteriosa, che ha accompagnato il nostro amico fino alle prime luci dell’alba, quando i primi raggi del sole hanno iniziato a giocare, attraversando la piccola finestra della sua camera.
La prima mattina ha fatto una camminata di tre ore al confine tra il verde e l’azzurro, un vero godimento per i sensi. Si è fermato presso una sorgente di acqua cristallina e gelata, circondata da castagni secolari. Al suo rientro, per ora di pranzo, i monaci hanno apparecchiato il tavolo sotto il gelso del monastero. Pita di zucchine con formaggio e sesamo, polpette di zucchine, zuppa di tahini, pane integrale, olive e pomodori erano donati come l’unico elisir per la salute dell’essere umano. Chiacchierando con il cuoco, il nostro amico, gli ha parlato dell’esistenza di questo blog e del progetto postvacanziero della “Grecia in punta di forchetta”. Il monaco-cuoco, sorridendo e guardando verso il mare, decide allora di offrire i suoi segreti per i due semplicissimi piatti offerti per pranzo.
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Pita con zucchine, formaggio e sesamo nero.
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Ingredienti: 1 Kg di zucchine, 4 patate di media grandezza, sbucciate e tagliate a fette sottili, ½ Kg di formaggio di pecora, 150 gr di feta, 2 pomodori tagliati a pezzetti, 2 cucchiai di mentuccia tagliata finemente, farina q.b., 1 cucchiaino di semi di sesamo bianco ed uno di sesamo nero, 1 tazza di olio extravergine di oliva, sale.
Tagliamo le zucchine a fette sottili, le saliamo e le mettiamo in uno scolapasta a sgocciolare per 2-3 ore. Mescoliamo le zucchine scolate con i pomodori ed una parte dell’olio. Condiamo le patate con l’altra parte dell’olio. Ungiamo una teglia e facciamo uno strato di patate. Aggiungiamo sopra il formaggio di pecora a dadini e copriamo con uno strato di zucchine, cospargiamo con un velo di farina, la feta sbriciolata e la mentuccia. Ripetiamo il procedimento ed infine facciamo l’ultimo strato con il formaggio, mescolato al sesamo. Cuociamo in forno a 180° per 1 ora e ½. Va servita tiepida.
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Polpette di zucchine
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Ingredienti: 5 grosse zucchine, farina q.b., 250 gr di feta sbriciolata, 100 gr di caciotta di mucca grattugiata, 2-3 cipollotti tritati, un mazzetto di menta, 1 tazza e ½ di semi di sesamo, 1 tazza e ½ di farina di mais, 1 tazza e ½ di pangrattato, 6 uova battute, olio per friggere.

Tagliate a cubetti le zucchine e mettetele in una ciotola, cospargetele di farina, giratele fino a che ne siano ben ricoperte. Friggetele in abbondante olio, scolatele su carta assorbente e lasciatele freddare. In una bastardella mescolate la feta, la caciotta, la menta e le zucchine fritte. Fatene delle palline schiacciate. In un piatto mescolate il pangrattato, la farina di mais ed il sesamo. In un altro mettete le uova battute ed in una altro ancora della farina. Passate ogni polpetta prima nell’uovo, poi nella farina, poi ancora nell’uovo e dopo nella mistura di sesamo. Friggetele in abbondante olio. Fatele sgocciolare su carta assorbente e sevitele calde calde.

giovedì, ottobre 11, 2007

Il giro della Grecia in punta di forchetta: le Cicladi


Quest’estate, già prima dell’inizio delle vacanze, avevo una gran voglia di esplorazioni enogastronomiche. Ho preparato i bagagli ed ho dato il via alla mia tourné gourmet. Obiettivo? Scoprire le migliori specialità locali.
Nella cucina cicladica l’influenza eneta è evidente. Durante gli anni le cuoche isolane hanno trovato le modalità più facili per sfruttare al meglio la pochissima materia prima delle loro terre quasi secche. Da nessuna parte ho sentito così intensamente lo spirito dell’austerità, quanto nelle aride isole dell’arcipelago delle Cicladi. Per percepire tali invenzioni semplicistiche, è necessario che qualcuno spalmi sul pane un’insalata di sedano aromatizzata con capperi, cipolla secca e aglio, specialità dell’isola di Siros. Sarebbe necessario, almeno una volta, assaggiare le frittelle di finocchio a Tinos o le polpette di ceci a Sifnos.
Gli insaccati delle Cicladi, come pure i loro formaggi, hanno un sapore che viene inciso in maniera incancellabile nella memoria, come un tramonto sulle strade di Delos o di fronte alla caldera del vulcano di Santorino.
Non è semplice parlare delle quasi venti isole ed isolette che formano l’arcipelago delle Cicladi e delle specialità locali, ma vorrei raccomandare ai futuri viaggiatori ed avventurieri di non andar mai via senza aver prima assaggiato la pita di cipolle a Mikonos, il coniglio con l’origano a Tinos, lo sgombro con i capperi a Siros e le omelette di fave a Santorino.
In questi luoghi i dolci sono anch’essi, per la maggior parte, semplici. Sfruttano al meglio le risorse locali e sono a base di mandorle, di poca frutta e di miele. C’è l’abitudine, inoltre, di preparare dolci sciroppati come il cocomero di Ios ed il fico croccante di Tinos.
In poche parole i sapori della cucina regionale di queste isole fanno sì che tutti coloro che li proveranno racconteranno di un’esperienza gastronomica indimenticabile.
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Sardine in foglie di vite con salsa alle olive verdi
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Ingredienti per la salsa: 400 gr di olive verdi snocciolate, 2 spicchi di aglio ridotti in polpa, due ciuffi di coriandolo, 400 ml di olio extravergine di oliva, sale e pepe.

Ingredienti per il pesce: 18 grandi e fresche sardine, 18 grandi foglie di vite, 4 cucchiai di olio, il succo di mezzo limone, sale affumicato e pepe.

Mettiamo nel mixer tutti gli ingredienti per la salsa (facendo attenzione che non diventi troppo cremosa), tranne il coriandolo che triterete a parte con il coltello e che aggiungerete quando la salsa è pronta. Puliamo e laviamo le sardine, avvolgiamone ognuna con una foglia di vite. Ungiamole con l’olio ed insaporiamole con sale e pepe. Cuociamo le sardine in una padella antiaderente un paio di minuti per ogni lato. Serviamo le sardine con una spruzzata di limone e con un po’ di salsa di olive.

lunedì, ottobre 01, 2007

Un Meme… di gusto


Sino ad oggi ho evitato con cura di essere contagiata dalla meme-mania, glissando ogni invito… e puntando sullo sfinimento di coloro che tentavano ogni volta di coinvolgermi. Non è che li snobbassi per superbia… semplicemente amo raccontarmi in modo diverso. Voglio che le mie ricette e i miei racconti siano tessere di un mosaico che si compone piano piano, rivelando alla fine ciò che sono. Questa volta, tuttavia, il meme passatomi da Mara un po’ mi ha intrigato. Si trattava di parlare di 8 cose di sé riguardanti il gusto... e così ho intrapreso questo viaggio nel cibo, nel gusto, negli odori della mia memoria, con la considerazione che, come diceva Brillat-Savarin, “il gusto è un atto del nostro giudizio, con il quale noi diamo la preferenza alle cose che sono piacevoli al gusto su quelle che possiedono questa qualità”.
  1. La pasta fresca... o meglio prepararla. Non arrivavo ancora all’altezza del tavolino, quando ho iniziato ad impastare acqua e farina. Il mio primo ricordo olfattivo è proprio quello della pasta all’uovo, che ogni fine settimana mia nonna Maria preparava. Per me era il momento più felice della giornata; salivo su una sedia e la osservavo con attenzione, seguendo i movimenti delle mani e delle braccia. Lei guardandomi compiaciuta mi metteva davanti un mucchietto di farina ed un bicchiere di acqua tiepida, mi diceva come fare e controllava infine se l’impasto fosse della durezza giusta; l’unica cosa che non mi era concessa era tagliare la pasta. Una Domenica, avrò avuto 6 o 7 anni, mio nonno mi regalò una piccola spianatoia, che aveva fatto fare appositamente per me... non me ne sono mai separata, ce l’ho ancora.

  2. Il caffé. Lo bevo ovunque, sempre e comunque. Da piccola avevo una moka da una tazza, con cui mia mamma mi preparava l’orzo, ma io, nonostante non fosse caffé, mi sentivo lo stesso molto cool... e comunque nei momenti di distrazione ne rubavo un sorso di quello vero. Ancora oggi preferisco quello della moka, ma non disdegno gli altri tipi... lo detesto solo sottoforma di gelato.

  3. Il vino. Un vizio che mia ha passato mio nonno Antonio... diceva che “fa sangue” e me ne dava un po’ allungandolo sempre con la “gazzosa”, quella di una volta però, nelle bottigliette di vetro, che oggi non esiste quasi più.

  4. Il parmigiano. Sulla pasta ne metto sempre in quantità esagerate... in particolare sulle fettuccine al sugo di carne. Anche questo è un vizio che mi a passato il nonno... a lui piaceva metterne molto sulla pasta e spingendo me a mangiarne tanto (mi diceva che così mi sarebbe cresciuto il seno), evitava i rimproveri della nonna, che glielo vietava per via della sua pressione alta.

  5. I mezè. Quando sono in Grecia, nella calura delle giornate estive non c’è cosa che ami di più che sedermi in una taverna in riva al mare e mangiare mezè, davanti ad un bicchiere di ouzo ghiacciato, godendomi la brezza profumata di salsedine che viene dal mare. I mezè o mezedes sono degli antipastini caldi o freddi, che variano a seconda del posto e della stagione. Possono essere delle salsine (tzatziki, melinzanosalata, taramà....), dei formaggi (quasi sempre feta), delle insalate, delle verdure, o piccoli pesci marinati, fritti o alla griglia... etc. etc.

  6. La rucola. Hanno tentato di farmela mangiare in tutti i modi... ma proprio non ne sopporto il sapore, che mi da la nausea.

  7. Il polipo alla griglia... per me sinonimo di vacanza. In estate, in tutti i posti di mare della Grecia, mi piace vederlo penzolare dalle cordicelle, in attesa che il sole lo prepari a danzare sulle braci ardenti.

  8. Gli erbaggi selvatici bolliti o crudi. Mi hanno aperto innumerevoli porte sul mondo dei sapori... sapori originali e schietti, che ti mettono in contatto, attraverso un linguaggio primordiale, con la madre terra. In tutte le stagioni faccio sì che accompagnino primi o secondi, o che siano la mia insalata.

Chiudendo, visto che non è giusto pretendere da altri cose che con difficoltà accetto di fare io stessa, non inviterò altri blogger a continuare questo gioco. E se questo dovesse risultare la fine della piramide non mi interessa più di tanto. Anche se, certe volte, non possiamo cominciare qualcosa, è di conforto potervi porre fine. Se però chiunque di voi leggendo questo post si offrisse, volontariamente, di continuare sarò felice di osservarlo e sarà come se l’avessi invitato.