martedì, aprile 18, 2006

Dry martini... tra Bond e Buñuel

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Il perfetto dry martini non è un cocktail, è un’idea. Per avere sicuramente quella giusta, ecco a voi i dettagli storici.
La fama del dry martini non è dovuta tanto alle sue grazie gastronomiche, ma al cinema. Quanto può un gin, anche se “speziato” con un vermouth, far salire i toni estetici del gusto di qualcuno che si è abituato ai vini grand cru, ai malti invecchiati e agli champagne vintage? Nonostante tutto, a causa della frequentissima presenza del cocktail nel cinema, si è formato un rapporto stravagante che lo ha reso l’aperitivo più richiesto nelle cene di alta gastronomia. E non del tutto a torto. La discreta neutralità aromatica di un buon gin e la leggendaria secchezza del dry martini costituiscono le indispensabili condizioni di un buon aperitivo.
Può darsi che manchino le giuste condizioni gustativo-aromatiche che lo collochino come aperitivo ideale, come esistono in un buon champagne o in uno fine sherry, ma abbondano le condizioni stravaganti che si sono formate nel cinema. Quanti di noi non avrebbero voluto dire almeno una volta “A dry martini, please! Shaken, not stirred...”.
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Ed esattamente qui sorge la domanda quasi metafisica: quanto dry deve essere un dry martini? Da una parte, James Bond che ha reso famoso questo cocktail, nonostante sia un connaisseur par excellence, che capisce da un sorso l’annata di un Bollinger, non offre delle descrizioni riguardo la voluta secchezza del suo dry martini. E’ però molto sensibile a come il gin si mescola con il vermouth, cosicché la bevanda non si ferisca (bruised) con un mescolamento barbaro. Shaken, not stirred. Così come molto probabilmente preferisce Bond anche il sesso: agitamento delle sensazioni e non degli sgarbati contorsionismi. Dall’altra parte, per fortuna abbiamo le regole ferree di Luis Buñuel, del grande regista surrealista. Buñuel si è occupato tante volte di cibo, in modo sicuramente eversivo, nei suoi film. La famosa scena nel film “Il fantasma della libertà”, ove il cibo viene consumato nella toilette e la defecazione avviene nella sala da pranzo, la scena in cui i borghesi nel “Il fascino discreto della borghesia” bevono il dry martini cercando inutilmente il pasto perfetto, ne sono due esempi classici. Buñuel si è occupato inoltre delle regole esatte per ottenere un dry martini (nella sua autobiografia “My last sigh”). La sua ispirazione per la ricetta ideale è presa dall’Immacolata Concezione. Senza disposizione surrealistica o umorismo eversivo, Buñuel ricorre al grande filosofo medievale, Tommaso d’Aquino, che parla dell’Immacolata Concezione nel modo seguente: “come un raggio di sole trapassa una finestra, lasciando intatto l’imene della Vergine...”.


Nello stesso modo, secondo Buñuel, un raggio di sole deve trapassare una bottiglia di vermouth (e certamente, quando parla di vermouth intende solo il fine, quasi senza dolcezza e stupendamente sensibile Noilly Prat), prima che essa si scontri con il gin. Lo spirito del vermouth semplicemente si infonderà con la sua grazia nel liquido trasparente, per dar vita all’immacolato e molto dry martini. Con religioso rispetto, come se fosse una nuova Arca dell’Alleanza, Buñuel depone l’assoluta ricetta per il dry martini. Dice allora: “ecco la mia ricetta personale, frutto di lunghi ed elaboratissimi esperimenti, garantita per i suoi risultati perfetti. Prima che arrivino i vostri invitati, mettete tutti gli ingredienti, bicchieri, shaker e gin in frigorifero. Utilizzate un termometro per accertarvi che il ghiaccio stia a 20° sotto lo zero – il ghiaccio deve essere molto ghiacciato e duro, cosicché non si sciolga... non esiste niente di peggio che un martini annacquato.


Non togliete niente dal frigorifero, finché non siano arrivati i vostri invitati. Allora, fate sgocciolare poche stille del Noilly Prat e mezzo cucchiaino di Angostura bitters sopra il ghiaccio. Mescolate e poi scolate il liquido tenendo solo il ghiaccio, che manterrà il tenue gusto di entrambe. Versate il gin sul ghiaccio, agitate di nuovo lo shaker e servite
". Buñuel, però, nonostante la precisione della sua ricetta non dice il tipo di gin che utilizza per questo emblematico cocktail; non parla nemmeno dell’oliva, del limone o del Gibson’s. Dato che era spagnolo, forse preferiva le olive verdi ripiene di mandorle. Per quanto riguarda il gin, l’Inghilterra è da sempre una fonte autorevole per questa bevanda e naturalmente marche come il Bombay Sapphire, il Tanqueray, il Ten, rappresentano le scelte più indicate. E di sicuro, almeno secondo il dry martini di Buñuel, mai la vodka. Questa sarebbe una bestemmia ed un’eversione surrealistica...

sabato, aprile 15, 2006

Auguri di Buona Pasqua


Il raccoglimento della Settimana Santa e l'unicità della Passione di Cristo, con la loro celebrazione, ci guidano in un viaggio interiore di redenzione verso i valori, che danno un significato alla vita e al contenuto dell'uomo.
E' una lezione di amore e di dovere nei confronti del prossimo. E' un'occasione di fuga dalle debolezze umane e dalle tentazioni della vita quotidiana...
Ognuno di noi deve fare la propria battaglia e sacrificarsi per gli ideali universali. Ogni Golgota ha la sua Resurrezione!
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Auguro a tutti Buona Resurrezione e Buona Pasqua.
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Ευχομαι σε ολους, Καλη Ανασταση, αναταση (των ανθρωπινων ιδεων και αξιων) και ανανεωση (της ζωης)

giovedì, aprile 13, 2006

“Θαλίαι”

Vi siete mai chiesti del valore e dell’utilità di quel senso chiamato GUSTO? Avete pensato cosa sarebbe la nostra vita senza il senso del gusto? Vi siete mai interrogati su quante ore della nostra vita questo senso rappresenta la principale e più importante alimentatrice del contenuto della nostra coscienza, ma anche sul significato di questo contenuto, non soltanto della nostra beatitudine e del godimento della vita, ma anche della sua evoluzione e della sua continuità?
Grazie a questo “senso” ieri sera a Roma è avvenuto il “Θαλίαι” (un modo “povero” di chiamare il simposio) dei foodbloggers romani. I miei impegni non mi hanno permesso di restare ed “approfondire” la serata. E’ stato una sorta di aperitivo in tutti sensi!
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… “e tu saresti?” ha chiesto l’amico cybernauta, e la sua voce si è persa improvvisamente, mentre veniva trasportata dall’aria fresca che ieri dominava la serata romana, diffondendosi tra le voci degli avventori del locale, intrecciandosi con gli odori del forno a legna e del fritto e perdendosi sopra il quartiere Tuscolano.

In tal modo sarebbe potuto iniziare il capitolo introduttivo di un vecchio giallo, che applica una ricetta provata tanto nella narrativa quanto nella cucina: il collegamento dell’argomento (sia che si tratti dell’intreccio di una storia, sia di una pietanza cucinata) con un determinato luogo, con le sue precise caratteristiche, con le persone che lo frequentano, con i colori, gli odori e con le sue memorie. Una ricetta che riesce a creare un’atmosfera suggestiva e un fascino sicuro.

…durante una cena normale, in determinate situazioni, qualcuno potrebbe improvvisare. Nell’ora dell’aperitivo mai! Il doveroso rispetto di certe regole in questo frangente è obbligatorio. L’apparente tranquillità e leggerezza, che distinguono le persone durante l’aperitivo, non devono mai confondere. In realtà si tratta di una piccola cerimonia, ove le persone che partecipano si sottopongono volentieri a delle regole ferree. E perché mai? Prima di tutto perché l’ora dell’aperitivo è un’ora di gioco (e sappiamo quante sono ferree le regole di un gioco). Nei pasti interi uno cerca di saziarsi e questo non sempre è un gioco. Al contrario, con l’aperitivo si gioca, si stimola l’appetito, se ne protrae la durata, non cercando a tutti i costi la sazietà. Il ritmo del mangiare (o meglio dello spilluzzicare le pietanze dai piatti) rallenta in modo sensibile, diventa intermittente con grandi spazi di pausa ed i nostri movimenti più lenti e più discreti. Diventa un momento di compartecipazione e condivisione, di estrema intesa reciproca. Oltre la suddetta disciplina, predomina anche la disciplina della parola: durante l’ora dell’aperitivo, la compagnia conserva un umore piccante e stuzzicante, mai i commensali alzano la voce, né allungano il discorso. La conversazione dura poco ed è lapidaria. In quel momento non si pongono, né si sviluppano argomenti, ma semplicemente si registrano fatti e si espongono esperienze. I commensali tralasciano di proposito gli argomenti “sonori”, sapendo che alla fine si interesseranno solo della REALTA’.

La mia “realtà”, ieri sera, è stata quella di aver “assaggiato” delle persone, che prima erano scrittori ignoti di diari on line, con cui avrei piacere di incontrami ancora per condividere e sviluppare l’interesse per il GUSTO!

sabato, aprile 08, 2006

FOOD NOIR... le ricette dei detectives

Il mistero dei gialli e il loro rapporto con il cibo
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Per qualche ragione le storie dei gialli si intrecciano con il cibo. Nei film, la musica collega in modo estetico e sentimentale le immagini. Nelle storie gialle, il “soundtrack” è il cibo. E mentre si capisce l’utilizzo della musica jazz nei film noir, nel gourmet food noir, l’associazione tra cibo e delitti rappresenta un mistero.
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La prima cosa evidente è che il food noir come genere letterario è attualmente di moda. Anche in passato c’erano il sentore che vi fosse qualcosa tra i detective, che cercavano di risolvere gli omicidi ed il cibo, ma la tendenza non era così evidente. Esistevano certamente personaggi come il buongustaio, collezionista di orchidee, Nero Wolfe, come il gourmet Hercule Poirot, o l’amante delle brasserie ispettore Maigret e perché no il connoisseur James Bond, ma la stragande maggioranza dei detective, dall’anoressico Holmes al junk food junkie Marlow, in un certo senso snobbavano il cibo, o per meglio dire, il cibo gourmet era qualcosa di “esotico” con cui gli eroi duri (gli hard-boiled detectives, come vengono definiti) non potevano identificarsi. Inoltre, in tantissime occasioni, come ad esempio nei vecchi pulp fiction americani, i detective si nutrivano di bevande e whisky, mentre tantissimi masticavano in maniera disgustosa scrambled eggs in qualche off beat diner.
Il cibo gourmet è diventato, invece, attualmente di moda: con la comparsa di Carvalho di Montalbàn, di Montalbano di Camilleri, di Aristide Pamplemousse di Michael Bond, del Lord Peter Wimsey della Sayers, della Goldy Bear Schulz della Davidson, del Gourmet Detective di Peter King e della Kay Scarpetta della Cornwell, che hanno una fissazione con il cibo, il food noir, in cui il buon cibo, i vini importanti ed il benessere, giocano un ruolo da protagonisti, è diventato pure questo di moda... un genere nel genere. Anche il detective Duffy di Dan Kavanagh (pseudonimo di Julian Barnes, che ha scritto il famoso “The Pedant in the Kitchen”) ha deciso di abbandonare il “cibo spazzatura dei poliziotti ed imparare a cucinare”, mentre l’affamato ispettore Wexford di Ruth Rendell scopre il buon cibo nel suo pub, che si evolve in un ristorante gourmet.
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Negli Stati Uniti questo genere ha assunto dimensioni enormi e viene riconosciuto come culinary mysteries, mentre ci sono delle riviste specializzate che dedicano pagine e pagine al food noir. Vengono di continuo pubblicati dei libri in cui si glorifica il rapporto tra cibo ed omicidi, come ad esempio nel famosissimo A Taste of Murder: Diabolically Delicious Recipes from Contemporary Mystery Writers, di Jo Grossman e Robert Weibezahl. Scrittori come Joanne Fluke, Lou Jane Temple, Jeffrey Marks, Peter King e Virginia Rich, scrivono innumerevoli libri food noir con titoli come: Fudge Cupcake Murder, Blueberry muffin murder, Chocolate Chips cookies murder, A stiff risotto, Death by Rhubarb, Criminal appetites, Death al dente, The cookery school murders ecc., mentre anche per le grandi signore del giallo Patricia Cornwell e Dorothy L. Sayers, sono stati pubblicati dei libri di cucina come Food to die for: secrets from Kay Scarpetta’s kitchen e The Lord Peter Wimsey cookbook. Anche Anthony Bourdain del Kitchen confidential ha scitto un giallo il Gone bamboo, dove il protagonista è – chi altro? – se non un cuoco.

Il cibo nella nostra epoca vende, è moda, e come moda ha “inquinato” anche la narrativa. Attenzione però, non tutta la narrativa, e certamente non quella “seria”, in cui il cibo viene definito “antispirituale” e quindi senza diritto di essere nominato dagli intellettuali. Anche nel Gosford Park o nel The remains of the day, mentre la cerimonia della cena viene descritta con grande dettaglio, il cibo non viene descritto quasi per niente. Il cibo ha trovato terreno fertile nel cosiddetto, dagli snob della narrativa, pulp fiction. Lì, e specialmente nei gialli, il cibo, inteso come “arte scadente”, ha trovato come alleato naturale la narrativa scadente.

Nella odierna, epoca postmoderna non è più “politicamente corretto” che la narrativa venga distinta in classe superiore e inferiore. La narrativa gialla (crime fiction) si è confermata come un genere meritevole di rispetto. In tal modo l’abbinamento con il cibo è diventato ancora più forte.

L’arte culinaria: una specie di assassinio

La seconda cosa da sottolineare è rappresentata dal fatto che tutti dobbiamo mangiare e che tutti abbiamo dei capricci. All’interno di una serie di storie ove il personaggio detective deve, assieme alla soluzione dei misteri, mangiare, e ove la sua personalità deve sviluppare certe peculiarità per diventare ben riconoscibile ai lettori, il cibo ha un ruolo importantissimo. Nero Wolfe è famosissimo per le sue grandi abbuffate, mentre l’ispettore Montalbano, a cui piacciono i grandi pranzi, sia consumati nella sua amata trattoria da Calogero, sia cucinati Adelina, non ama uscire. Il detective privato Pepe Carvalho, oltre a scrivere lettere alla sua amica prostituta e a bruciare libri, ama cucinare cibi complessi o giudicare le produzioni gastronomiche del suo aiutante, ex-carcerato Biscuter. Come diceva Montalbàn in una intervista, “un protagonista deve avere due o tre particolarità facilmente riconoscibili. Non esiste un protagonista che non li abbia. Maigret aspetta sempre i cibi stagionali, i primi piselli primaverili nella brasserie. I lettori se lo aspettano, come si aspettano che Sherlock Holmes suoni il violino o sniffi”.

Non tutti i protagonisti dei gialli hanno la stessa predisposizione gourmet di Pepe Carvalho di Montalban. Jack Reacher di Lee Child, l’unica cosa che fa, oltre a risolvere misteri difficili, è bere caffè, molto caffè, molto molto caffè. Finché non si risolve il mistero, ne consuma intere coltivazioni. Nick Stefanou di Pellecano anche se cresciuto dal nonno, da “Nick’s Grill”, con molti riferimenti a cibi greci, si nutre di alcool, sigarette, musica e... ancora alcool.
La terza cosa importante per un assassinio è la ricetta. Qui l’espressione “questo cibo è un assassinio” assume dimensioni che fanno rabbrividire. Dalle grandi cene in cui si raccolgono tutti i sospetti, così che si capisse chi era l’assassinio, fino ai veleni che scompaiono assieme al vino nel decanter, c’è qualcosa in comune tra la ricetta per un assassinio e la ricetta per un cibo.

Dice Jeanine Larmouth scrittrice del famoso Murder on the Menu: “L’arte culinaria condivide qualcosa di importante con la risoluzione di un mistero, devi raccogliere gli ingredienti nelle stesse modalità. Se i gialli contengono dei menù di ricette per degli omicidi, ben volentieri contengono anche dei menù di ricette per del buon cibo”.
Il rapporto misterioso tra assassinio e cibo potrebbe essere anche qualcosa di più profondo. Forse il sospetto, dietro questo rapporto profondo tra omicidio e cibo, è rappresentato da qualche comune desiderio, che spinge ad ammazzare una gallina, per prepararla con il tartufo ed ammazzare tuo zio riccone per comprare il tartufo. Come dice in modo misterioso Anthony Bourdainl’arte culinaria è una sorta di assassinio” o in modo ancora più caratteristico, come deduce Montalban, “l’arte culinaria è una maschera di morte. Per mangiare, bisogna ammazzare...”. Patricia Highsmith nelle sue storie per misogini spinge le sue protagoniste a nutrire i loro mariti fino alla morte.

Che altro posso dire, tranne che concordare con il titolo del libro di Phyllis Richman, in cui incidentalmente il detective è un critico di ristoranti (!!!): The butter did it!

Anatra alle foglie di tè

Dal libro “Gli uccelli di Bangkok” di Manuel Vàzquez Montalbàn
Come nel "Quintetto di Buenos Aires", anche a Bangkok, ove il destino ha portato Pepe Carvalho, Montalbàn mostra un’incredibile conoscenza della gastronomia locale.


Ingredienti: 1 anatra, 20 gr di zenzero fresco, 5 gr di cannella, 5 gr di semi di anice, 1 bicchiere di shao hsing (il vino cinese che può essere sostituito da sherry bianco), 80 gr di tè qualità Long Jing, olio di arachidi, sale e zucchero.

Una volta pulita bene l’anatra, cospargetela internamente ed esternamente con sale e zucchero. Mettetela in una pentola profonda ed aggiungete lo zenzero, il bastoncino di cannella a pezzettini, i semi di anice, il vino e 100 ml di acqua. Coprite tutto e fate cuocere a bagnomaria per 2 ore. Tostate il tè in un tegame e mettetelo sopra l’anatra. Coprite nuovamente e lasciate che l’anatra si aromatizzi facendo cuocere per altri 5 minuti.

In un tegame fate scaldare l’olio, metteteci l’anatra dopo averla fatta scolare bene e fatela rosolare. Va servita a pezzetti.

mercoledì, aprile 05, 2006

Il… segreto della cucina.

Menù “assassini” dai racconti gialli di Agatha Christie, senza l’arsenico ed altri… veleni.
In cinquanta dei suoi circa ottanta gialli, Agatha Christie “uccide” i suoi protagonisti, non con pistole e coltelli, ma con drink e cibi avvelenati.
Anne Martinetti e François Rivière, scrittori del libro "Crèmes et châtiments. Les recettes délicieuses et criminelles d’Agatha Christie" ed appassionati studiosi del fenomeno “Agatha Christie”, hanno avuto un’idea geniale: hanno sottratto l’arsenico, la stricnina ed altre sostanze mortali dai piatti che propongono e li hanno consegnati, “disinfettati” ma mai “sterilizzati”, al lettore.
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Quel che è uscito fuori è qualcosa che va oltre le 100 stupende ricette, capaci di far cambiare opinione a molti sulla “bruttezza” della cucina britannica. Grazie alle decine di odori leggeri, alle marmellate, alle omelette, alle torte, alle tartine, alle creme e ai frutti, rincontriamo la reale bellezza della colazione, la religiosità dell’ora del tè, il clima dei pic-nic e certamente le più famose storie gialle del mondo.

Sulla scia di questo libro il mio prossimo post sarà dedicato al “food noir”.