sabato, giugno 30, 2007

La “luna blu” di Giugno


La definizione astronomica di “blue moon” si ha per la seconda luna piena che si presenta nello stesso mese. Il tempo intercorso tra due lune piene è di circa 29,5 giorni, mentre la durata di un mese è per arrotondamento 30,5 giorni. Questo rende improbabile il fatto che un mese abbia due lune piene anche se certe volte capita... e per questo nella lingua inglese pur di definire la rarità del fenomeno utilizzano la frase “once in a blue moon”, che si tradurrebbe liberamente in italiano “ogni morte di papa”.
In media ci sono 41 mesi in ogni secolo che ospitano due lune piene, cioè si può dire che abbiamo una luna blu una volta ogni due anni e mezzo. Questo fenomeno così eccezionale ha nutrito la fantasia popolare creando delle credenze. La più affascinante per me è quella secondo cui i tre giorni di questa luna piena (vigilia, il giorno stesso e quello dopo) le porte sono aperte... le porte che collegano i messaggeri di una vita parallela a noi...
Lunedì primo Giugno c’è stata la prima luna piena ed oggi Sabato 30 avremo l’occasione di osservare nel cielo la seconda luna piena di Giugno, dopo 200 anni, visto che l’ultima “luna blu” del mese di Giugno è stata quella del 30 Giugno 1806.
Che il bagliore blu di questa luna brilli nei vostri occhi!

giovedì, giugno 28, 2007

Dal fico al fegato

La bellezza lussureggiante di un fico maturo e morbido, pronto a cadere dal ramo dell’albero, è un’immagine simbolo del paesaggio dell’estate mediterranea.
Il fico è un frutto di altissimo valore nutrizionale e pieno di simbologia. Il lattificcio bianco che fuoriesce piano piano, dopo il distacco del frutto dall’albero, simboleggia lo sperma maschile ed anche il latte materno. I suoi semini simboleggiano la fertilità, la bontà, l’unità e la sapienza.
Sotto un albero di fico la lupa nutrì Romolo e Remo e sui rami sempre del fico Giuda, dopo aver tradito Cristo, si impiccò.
Il fegato, uno dei più importanti organi umani, veniva considerato fin dall’antichità la sede del coraggio, della collera e della paura. La parola “lefkipatias” (colui che ha il fegato bianco) significa codardo, colui cioè che non ha sangue nelle vene. L’associazione del fegato con il coraggio e con la collera si ha anche in altre lingue: in italiano ed in spagnolo si dice rispettivamente “avere fegato” e “tenere higado”. Similmente i francesi utilizzano la frase “avoir les foies blancs” (avere il fegato bianco) e gli inglesi “lily-livered” per definire il vigliacco. Inoltre, essendo sede della collera, ogni qual volta che qualcuno “bolle” nella sua collera in italiano si dice “si mangia il fegato”, mentre in spagnolo “moler los higados”.
Le parole fegato, higado, foie derivano dal greco, attraverso il latino. La parola “sikoti” (fegato in greco), però, da dove origina? Da “siko” (fico) è la risposta, anche se il percorso è lungo e tortuoso. Il fico ha avuto un ruolo cardine nell’alimentazione dei greci antichi. Essi nutrivano certi animali (per lo più oche e maiali) quasi esclusivamente con i fichi, per far si che il loro fegato acquisisse un sapore eccellente. Questa vivanda, qualcosa di simile al foie gras, era chiamato “sikoton ipar” (fegato ficato). Con il tempo, la parola è decaduta ed è rimasto l’aggettivo, sikoton (ficato), che è rimasto a descrivere quel fegato specifico, ma anche il fegato in generale. I romani presero dai greci il “sikoton ipar” e tradussero alla lettera chiamandolo “iecur fegatum” e anche qui restò solo l’aggettivo, che designa sino ad oggi quest’organo.
Ci sono tante espressioni metaforiche che hanno come protagonista il fico. Per ciò che non vale niente e che non interessa, in italiano si dice “non vale un fico secco”, mentre in spagnolo “no dar un higo”. Invece, per ciò che non è brutto, ne buono in francese si dice “mi-figue mi-raisin”.
Potrei continuare a lungo descrivendo altri aneddoti glossologici di questi frutti ermafroditi (racchiudono in sé stessi sia la parte maschile, che quella femminile), ma mi fermo qui proponendovi la ricetta che segue, stimolata dalla proposta di FrancescaV.
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Gelato di ricotta di capra con fichi e mandorle caramellate
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Ingredienti per il gelato: 85 gr di ricotta di capra, 30 gr di zucchero, 2 tuorli d’uovo, 250 ml di latte, una presa di sale.

Ingredienti per i fichi: 130 ml di vin santo, 240 ml di vino bianco moscato, 1 cucchiaio di miele, 12 fichi, ½ baccello di vaniglia.

Ingredienti per le mandorle caramellate: 2 cucchiai di acqua, 4 cucchiai di zucchero, 60 gr di mandorle bianche pelate.

Battete i tuorli con lo zucchero, fino ad ottenere una crema. Fate scaldare il latte e versatelo un poco per volta nella crema, mescolando continuamente con una frusta. Mettete il tutto in una casseruola, ponete su fornello a fiamma bassa e continuando sempre a mescolare, aggiungetevi la ricotta. Mescolate fin quando la crema si addensi. Passatela al setaccio, ponetela in un recipiente metallico che coprirete con della pellicola. Raffreddate la crema, ponendo il recipiente in una bacinella con del ghiaccio, e poi mettetela nella gelatiera. In una casseruola versate il vin santo, il vino bianco, il miele ed il baccello di vaniglia. Fate ridurre di un quarto. Togliete da fuoco e lasciate raffreddare. In una padella, su fiamma bassa, fate sciogliere lo zucchero con l’acqua, aggiungete le mandorle, e mescolate con una spatola fino a che si caramellino. Ungete una placca o meglio ancora una tavola di marmo e versateci le mandorle, allargatele bene cercando di dividerle e lasciate raffreddare. Dividete i fichi ognuno in quattro parti. Disponeteli su un piattino e versateci su un cucchiaino di riduzione di vino. Disponete al centro una pallina di gelato e guarnite con le mandorle caramellate.

mercoledì, giugno 20, 2007

Foto-food reportage da Santorini

Thera… come si può resistere alla malìa del mare blu… del cielo azzurro, che contrastano con il colore bianco ed abbagliante delle case, come si può resistere al tramonto… a quelle magnifiche e “sacre” fiamme che incendiano il cielo e si riflettono sul mare… e soprattutto come si può resistere, davanti a questa sinfonia di colori, suoni e sensazioni, ad un bicchiere di ouzo sorseggiato in una taverna dalle sedie azzurre ed accompagnato da deliziose mezèdes. Non ho potuto…
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Kouloures

Accighe marinate

Polipo all'aceto
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Gamberi saganaki

Polipo marinato alle erbe

Frutti di mare con salsa alla menta

sabato, giugno 16, 2007

Buon weekend da Santa Irene


"Πέτρα πικρή, δοκιμασμένη, αγέρωχη... "
Οδυσσέας Ελύτης, Ωδή στη Σαντορίνη
"Pietra amara, provata, indistruttibile..."
Odisseas Elitis, Ovazione a Santorino
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Santorino ha un cuore che pulsa forte, muove le montagne, la terra, il mare... il cuore dei visitatori o si sincronizza con esso - e restano folgorizzati per sempre- o non si sincronizza e scappano!
Mi sono sempre chiesta cosa mi riporta a quest'isola... l'unica risposta vera e completa è IL SILENZIO! A Santorino chiudo gli occhi e palpo la tranquilla forza che si nasconde sotto l' acqua dipinta di blu scuro, come sè Santa Irene delle Lacrime ti volesse suggerire qualche cosa: Santorino è un'isola pericolosa, che deve il suo fascino ad una minaccia che esiste nell'aria. Quelli che la percepiscono non possono che ritornarci sempre... gli magnetizza il suo destino catastrofico, che non la abbandonerà mai, ma anche la convizione che in questo posto la vita è da sempre più forte dalla morte...!

mercoledì, giugno 13, 2007

InWeDay 2007

Dalla copertina del libro Uses of blogs
(Axel Bruns & Joanne Jacobs editors)
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Umberto Eco aveva previsto bene: “il PC ci farà diventare tutti un po’ scrittori”.
Ogni rivoluzione determina delle nuove forme di comunicazione. La rete ha dato origine ai blogs, che sono la forma più rivoluzionaria di comunicare.
Il blogging è una specie di scrittura sperimentale. Da una parte c’è la comodità di un’autoedizione gratuita, che lo “scrittore” può curare quanto vuole fino alla sua pubblicazione, e dall’altra l’autenticità di un grido elettronico. Se calcolassimo l’interazione del mezzo, ossia il rapporto tra posts e commenti nell’arco del tempo – con la spontaneità che vige nella rete – vedremmo un risultato complesso ed eccezionalmente interessante, che incorpora un’insieme di metodiche di comunicazione pubblica, che sino ad oggi erano indipendenti tra loro.
Il blog ha le sue leggi: non è un giornale e neanche un libro. Contiene il suo racconto! Viene redatto attraverso dei posts, con dei passaggi a volte violenti, con improvvisi “voli” da un link all’altro, con un montaggio discontinuo. Infatti, non c’è solo la parola scritta, ma c’è la musica, c’è l’immagine ed anche il video. Direi che esiste un corpo, ma è continuamente in “progress”.
Da archeologa, con profonde radici nell’arte del “ricomporre”, trovo questa associazione a livelli multipli, di così tanti “pezzi” della comunicazione, eccezionalmente attraente.
Per questo ad un certo punto, spontaneamente, ho dato vita al mio blog, che non vuole essere una vetrina di presentazione dei miei “gusti”, né una specie di forum per i miei lettori, ma una breccia nel mio mondo e per lo più nella mia verità, che non è composta solo da parole, immagini o video. Il blog ha dato la possibilità alla mia individualità di esprimersi in modo “criptonimo” (cioè con un’identità nascosta), liberandomi e dandomi la possibilità di parlare senza il mantello della “mitoplasia”, senza l’architettura della narrazione ben curata e senza la teatralità dei ruoli discreti.
Sapendo che una pagina web non è un libro e né un giornale, e per tale ragione viene letta con lo “scanning” (semplice scorrere dell’occhio sulla pagina) o con lo “skimming” (lettura solo dell’inizio delle frasi o dei paragrafi), e che solo se esiste qualcosa di interessante il visitatore si sofferma ad una lettura completa, egoisticamente, cerco di soddisfare il mio bisogno di esprimermi, seguendo solo le 8 regole d’oro della scrittura di Kurt Vonnegut e le mie convinzioni, accompagnate dalle loro psicosi.
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venerdì, giugno 08, 2007

Paximadi: il pane “popolare” dalle origini aristocratiche

Nonostante il “dipiros artos” o “dipiritis” fosse stato un prodotto di necessità, nel corso dei secoli, è stato anche un prodotto ricercato, ossia nei suoi confronti c’è stato un interesse gastronomico, come pure accade oggigiorno.
Dipiritis artos, allora. Era conosciuto fin dall’antichità. Lo consigliava Ippocrate e lo cita pure Aristotele. Le informazioni, però, che ci arrivano dall’antichità non sono tante. Qualcuno avrà osservato che il pane disidratato può conservarsi per lunghi periodi e consumarsi secco, oppure bagnato con l’acqua. Comunque stiano le cose, il dipiritis artos ha rappresentato il cibo dei poveri, dell’esercito e di tutti coloro il cui lavoro li portava a vivere per lunghi periodi lontani da casa. I marinari ed i pecorai facevano sì che non mancasse mai dai loro “fagotti”. La contadina, che non poteva impastare il pane ogni giorno, doveva ricorrere all’umile dipiritos per la sua famiglia.
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Paximadi di Sfakià
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All’inizio del XX secolo la prima immagine che si poteva incontrare entrando in una casa cretese di campagna erano i dipiritos a forma di ciambella, appesi su un bastone. Se si fosse andati dall’altra parte dell’Europa, invece, nelle case dei pescatori svedesi, avremmo visto i famosi “knekerbrad” (molto sottili, ma lunghi) pendere dai soffitti di legno. Era il pane che prendevano con se quando andavano a pesca.
Il nome dipiros artos o dipiritis è dovuto al fatto che viene cotto due volte (una volta come pane e, tagliato a fette, rimesso in forno ad asciugarsi). Furono i Bizantini a dargli il nome di paximàdi in onore del loro inventore, Pàxamos, famoso scrittore del mondo antico che, come ci dice Athineos, si occupò di gastronomia. In epoca bizantina il nome Pàxamos era sinonimo di cibo di grande qualità. Pàxamos visse intorno agli anni di Cristo. Non si conosce esattamente quale sia stato il suo contributo all’evoluzione dell’arte di fare il pane. Forse inventò una metodica, o forse fece semplicemente divenire famosi i poveri paximàdia, dandogli così valore.
Con il passare del tempo il paximàdi divenne sempre più amato. Si produceva sempre ogni qual volta le condizioni erano difficili, al punto da essere associato alla povertà, alla popolazione rurale, ai pecorai ed ai marinai.
Durante il dominio veneziano, i forni di Creta producevano grandissime quantità di paximàdia, destinati alla flotta della Serenissima. Il paximàdi cretese può essere, infatti, a buon diritto definito come uno dei primi prodotti alimentari confezionati.
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Paximàdi di orzo

Il paximàdi dell’esercito

In tempo di guerra l’esercito si cibava quasi esclusivamente di questo alimento. Esisteva addirittura un gruppo speciale che si occupava del suo trasporto e distribuzione. Lo storico Procopio (V sec. d.C.) asserisce, infatti, che il pane destinato all’esercito doveva entrare in forno due volte. Uno dei futuri imperatori di Bisanzio, Giustino, riuscì a sopravvivere grazie ai modesti paximàdia, in una lunga marcia che dall’Illiria lo condusse a Costantinopoli.
Il paximàdi destinato all’esercito bizantino era detto artos buccellatos, per questo i soldati erano chiamati buccellari.

Il paximàdi dei monaci

Nei grandi monasteri i monaci avevano di solito il pane fresco, in quelli piccoli invece i paximàdia rappresentavano il cibo principale. Di solito era di orzo e molto duro. Ovunque si sviluppò l’eremitismo l’unico cibo “ammesso” erano i paximàdia, i frutti e le radici. Tutti monasteri che si trovavano vicino gli eremi, di conseguenza, si assunsero l’incarico del loro rifornimento. Così in questi monasteri si sviluppò in maniera particolare l’arte di fare il dipiritos. Ed ancora oggi nei monasteri cretesi si producono dei paximàdia di qualità eccellente, un esempio tipico è il monastero di Akrotirianì (Toplou) a Sitìa.

I paximàdi dei pescatori di spugna e dei pirati

Per i pirati, che molto spesso immergevano nel lutto le isole dell’Egeo, i paximàdia rappresentavano un’importantissima arma nei loro lunghi viaggi per mare. Pierre Bellon, narra che con un sacco di farina ed uno di paximàdia, una tanica di olio, un vaso di miele, poche trecce di aglio e di cipolla ed un po’ di sale si poteva vivere un intero mese nei viaggi per mare. Pure per i temerari sfuggarades (pescatori di spugne) di Kalimnos che aravano il Mediterraneo nelle profondità per cercare le preziose spugne, rappresentava il compagno più fedele. Infatti, come ci dice Henry Blount (1636), essi si nutrivano fin da piccoli di paximàdia per rimanere magri.


Paximàdi all'anice

Nonostante si creda che la scelta e la conservazione dei paximàdia sia semplice, la realtà è discordante. Il paximàdi deve essere cotto non ad alte temperature; quando lo compriamo dobbiamo stare attenti al suo colore, che dipenderà dalla farina utilizzata. Quelli di grano devono avere un colore dorato; quelli di orzo più scuro. Non bisogna scegliere i paximàdia bruciati in quanto hanno un sapore aspro e perdono il senso della freschezza. La confezione deve essere di buona qualità e non trasmettere il proprio odore al prodotto. Non è necessario che sia chiusa in modo ermetico, ma non deve neanche far sì che venga in contatto diretto con l’aria dell’ambiente. La sua conservazione è semplice. Non c’è bisogno di frigorifero. Ed essendo il suo maggior nemico l’umidità, va tenuto in luogo fresco e asciutto. Di solito può durare un anno intero dalla data di produzione.

Il battesimo dei paximàdia

Il paximàdi può essere consumato secco o bagnato nell’acqua per ammorbidirsi. Il suo “battesimo” necessita di attenzione. Non bisogna lasciarlo per più di pochi secondi, perché non perda la sua fisionomia e si sciolga. A Creta, la regione con la più grande tradizione del pane a doppia cottura, si dice che un buon paximàdi deve rimanere croccante anche dopo il suo “battesimo”, deve essere consumato tranquillamente, deve essere morbido, ma con la presenza di isolotti croccanti. Sono venuta in possesso di dieci ricette preziosissime, originarie di Creta e delle isole del Dodecaneso. Mi cimenterò nella loro realizzazione quando avrò il mio forno a legna (speriamo molto presto).

Kouloures


In base alla forma, i paximàdia cretesi vengono distinti in due grosse categorie: i dakos e le kouloures. I dakos sono fette, tagliate spesse, di pane dalla forma allungata. Le kouloures sono ciambelle tagliate a metà longitudinalmente, che danno origine a due parti, quella inferiore e quella superiore. Ci sono delle regole ferree che determinano la “distribuzione” delle kouloures. All’ospite non viene mai offerta la parte inferiore, in quanto indice che non è il benvenuto. Particolarmente indicativo di mal benevolenza era l’offerta all’ospite della parte inferiore capovolta.

La maniera più comune di servirle è bagnarle, metterci su pomodoro fresco a pezzetti e feta sbriciolata, cosparerle di origano o maggiorana freschi e versarci su un filo di olio extravergine di oliva.

martedì, giugno 05, 2007

Siamo ciò che mangiamo! Un fotoreportage dal TIME.

Giappone: Famiglia Ukita dalla città di Kodaira
Spesa settimanale: 37,699 Yen o $317.25
Cibi favoriti: sashimi, frutta, cake, chips di patate
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Italia: Famiglia Manzo dalla Sicilia
Spesa settimanale: 214.36 Euro o $260.11
Cibi favoriti: pesce, pasta con ragu, hot dogs, pesce surgelato
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Ciad: Famiglia Aboubakar dal campo Breidjing
Spesa settimanale: 685 CFA Francesi o $1.23
Cibi favoriti: zuppa con carne fresca di pecora
.Kuwait: Famiglia Al Haggan da Kuwait City
Spesa settimanale: 63.63 dinar o $221.45
Cibi favoriti: biryani di pollo con riso basmati
.USA: Famiglia Revis dalla Carolina del Nord
Spesa settimanale: $341.98
Cibi favoriti: spaghetti, patate, pollo al sesamo

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.Messico: Famiglia Casales da Cuernavaca
Spesa settimanale: 1,862.78 Pesos Messicani o $189.09
Cibi favoriti: pizza, pasta, pollo, crab
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.Cina: Famiglia Dong da Beijing
Spesa settimanale: 1,233.76 Yuan or $155.06
Cibi favoriti: maiale fritto con salsa di soia dolce
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.Polonia: Famiglia Sobczynscy dalla Konstancin-Jeziorna
Spesa settimanale: 582.48 Zlotys o $151.27
Cibi favoriti: zampe di maiale con carote
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..Egitto: Famiglia Ahmed dal Cairo
Spesa settimanale: 387.85 lire egiziane o $ 68.53
Cibi favoriti: Okra e carne di montone
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.Ecuador: Famiglia Ayme dal Tingo
Spesa settimanale: $31.55
Cibi favoriti: zuppa di patate con cavolo
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.USA: Famiglia Caven dalla California
Spesa settimanale: $159.18
Cibi favoriti: gelato, carne stufata, yogurt ,vongole
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. Mongolia: Famiglia Batsuuri da Ulaanbaatar
Spesa settimanale: 41,985.85 togrogs o $40.02
Cibi favoriti: montone
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.Gran Bretagna: Famiglia Bainton da Cllingbourne Ducis
Spesa settimanale: 155.54 sterline inglesi o $253.15
Cibi favoriti: avocado, sandwich con mayonnaise, cake di cioccolato fondente con crema
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.Bhutan: Famiglia Namgay dal villaggio Shingkhey
Spesa settimanale: 224.93 ngultrum o $5.03
Cibi favoriti: funghi, formaggio e carne di maiale
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.Germania: Faqmiglia Melander da Bargteheide
Spesa settimanale: 375.39 Euro o $500.07
Cibi favoriti: patate fritte con cipolla, bacon, aringa, noodles fritti con uova e formaggio, pizza, pudding di vaniglia

venerdì, giugno 01, 2007

1 Giugno 2007, la giornata di Amalia

La bloggosfera greca è in lutto per la scomparsa di Amalia Kalyvinou, blogger affetta da cancro, che per 17 anni non le era stato diagnosticato. Amalia, nel suo blog "Fakelaki" (Bustarella), racconta tutte le peripezie che il sistema sanitario le ha regalato, tenendo incollati moltissimi lettori. Nel suo ultimo post conclude dicendo: "Che siano i medici ciarlatani l'eccezione, non la regola..."
E' un caso che deve far riflettere perché può capitare a chiunque di noi... I blogger greci sono riusciti ad attirare l'attenzione di tutto il mondo sulla malasanità greca e ad istituire il 1 Giugno la giornata di Amalia.