giovedì, giugno 29, 2006

Gelatina di vino

Per questa “fresca” ricetta si deve utilizzare un vino rosso dolce… io ho scelto un Recioto della Valpolicella, che gradisco particolarmente per il suo sapore dolce e vellutato. Vino dalle antiche origini… una prima testimonianza si trova nel V secolo d.C. nella famosa lettera di Cassiodoro, ministro di Re Teodorico, il quale riceveva per la mensa reale l'Acinatico rosso.

Ingredienti: ½ litro di vino rosso dolce, 3 cucchiai di cognac invecchiato, 25 gr di fogli di gelatina, ½ litro di acqua, 120 gr di zucchero, il succo di 2 limoni succosi.

Mettete i fogli di gelatina in una pentola con l’acqua. Quando si ammorbidiscono, mettete la pentola sul fuoco e lasciate scaldare fino a quando i fogli si siano sciolti ed il liquido risulti trasparente. Togliete dal fuoco, aggiungete lo zucchero e mescolate finché si sia ben sciolto. Aggiungete il succo di limone, il cognac ed il vino e mescolate bene. Versate il liquido nei bicchieri oppure nelle coppette. Mettete in frigo e lasciate che si coaguli (almeno tre ore). Potete servire questa gelatina direttamente nei bicchieri o su dei piattini, dopo aver immerso la coppetta o il bicchiere per un minuto in acqua calda.

lunedì, giugno 26, 2006

La gelatina... un ingrediente per l'estate

La gelatina è usata, in cucina, principalmente come addensante o emulsionante. E’ una pura proteina, derivata da materie prime animali contenenti collagene (84-90% di proteine, 1-2% di sali minerali e acqua), che non contiene grassi, carboidrati o colesterolo ed è priva di conservanti. L'uso della gelatina nella cucina moderna è fondamentale: viene utilizzata in numerosi piatti come bavaresi, mousse fredde, creme e dessert che devono alla gelatina la loro particolare consistenza, ma anche terrine ed aspic.
Non si conosce quando sia stata scoperta, ma considerando che deriva dalla bollitura di pelle ed ossa di animali si suppone che questa sia avvenuta millenni fa. Sembra infatti fosse già conosciuta dagli egizi. Inoltre alcune fonti testimoniano che i convivi dei secoli passati erano spesso accompagnati da piatti a base di gelatina… L'uso della parola gelatina, che deriva dal latino gelatus = solido, congelato, compare tuttavia per la prima volta in Europa intorno al 1700. In Inghilterra, nel periodo Vittoriano, la gelatina era largamente utilizzata sia in piatti dolci che salati, dalle forme fantasiose e di varia grandezza. La gelatina commercialmente prodotta comparve sembra prima in Olanda intorno al 1685 e poi in Inghilterra; ma la prima vera produzione commerciale si ebbe negli Stati Uniti (Massachusetts) nel 1808.
La gelatina animale viene prodotta in gran parte con la cotenna di maiale, ma anche con bifido ed ossa bovine, ricchi della proteina collagene. La produzione avviene mediante un lungo processo, durante il quale, grazie ad un trattamento chimico e fisico, si rimuovono le sostanze superflue quali i minerali, i grassi e gli albuminoidi, per ottenere infine un collagene purificato sottoforma di fogli, di polvere o granuli.
Esistono altri tipi di gelatina derivate dal pesce e da vegetali. Quella che si ottiene dal pesce, più nota come “colla di pesce” deriva dalla loro vescica natatoria, essendo questa costituita in maggior parte da tessuto connettivale e quindi da collagene; è inodore e di colore leggermente ambrato. Quella vegetale, invece, deriva dalla bollitura di sostanze derivate dalla frutta acerba. La frutta più utilizzata è la mela, la prugna, le arance e i limoni.
Le gelatine utilizzate principalmente nell’industria alimentare sono di origine vegetale (radici, bulbi, semi ed alghe). Tra queste la più utilizzata è quella prodotta da un’alga rossa e conosciuta come Agar agar, che ha un sapore tenue ed è molto nutriente in quanto ricca di minerali ed è adatta a dessert leggeri e rinfrescanti soprattutto durante la stagione estiva.
In commercio si possono trovare gelatine aromatizzate alla frutta e colorate e gelatine prive di aroma e trasparenti.
Tutti i tipi di gelatina hanno in comune la capacità di trattenere acqua e formare delle masse solide ed elastiche.
La gelatina, quindi, essendo priva di grassi e carboidrati, essendo una fonte proteica ottimale e ricca di acqua, è il cibo estivo ideale.
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Aspic di gamberi
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Ingredienti: 200 gr di gamberi sgusciati, 1 bustina di gelatina granulare, 1 uovo sodo, 1 pomodoro, 1 cetriolo sott’aceto, 2 tazze di brodo vegetale, 1/3 di tazza di vino bianco aromatico, 4 cucchiai di succo di limone, pepe nero.

Lessate i gamberi (un segreto per farli diventare più saporiti è quello di aggiungere durante la bollitura un po’ di zucchero e 2 cucchiaini di aceto di vino bianco). Facciamo gonfiare la gelatina aggiungendo 4 cucchiai di acqua fredda e lasciando riposare per quattro minuti; dopodiché la sciogliamo in una tazza di brodo vegetale. Versiamo la seconda tazza di brodo, il vino, il limone ed il pepe. Versiamo un po’ di questa miscela in una teglia per ciambella, coprendo la base, e la mettiamo in frigo fino a quando si addensa. Dopodiché aggiungiamo le fettine di pomodoro, di cetriolo e di uovo e per ultimi i gamberi. Copriamo tutto con il resto della miscela e poniamo in frigo per alcune ore. Per far staccare l’aspic basterà immergere la teglia in acqua calda per un paio di minuti.

domenica, giugno 25, 2006

Domenica mattina... d'estate


La Domenica mi piace alzarmi presto, per assaporare la tranquillità della casa; lo svegliarmi lentamente senza sentirmi un uragano che scappa al lavoro con gli occhi chiusi.
Assaporare la bellezza della strada, vuota, completamente mia.
Chiedermi solamente dove vanno coloro che circolano a quest'ora.
Sentire la tranquillità del fuori ed il rumore del dentro.
L'altroieri ho visto, in un documentario, un monaco buddista, che raccontava di essere stato in un monastero per diciassette anni, sette dei i quali in completo isolamento. L'ho guardato bene per capire se fosse uno specchio, uno specchio simile alla grandezza di uno scorcio di mare, che i miei occhi hanno assaporato una Domenica mattina, in una spiaggia deserta persa in un remoto angolo dell'Egeo...
Buona Domenica!

martedì, giugno 20, 2006

I sapori dell'Islam

La cucina araba ha “tre anime” che la compongono: ci sono i Paesi del Maghreb, quelli del Medio Oriente e l’Egitto (che può essere considerato il ponte tra le altre due cucine). E’ ovvio che tra queste realtà culinarie molti sono i tratti in comune, ma molte le differenze, dovute ad una serie di fattori storici, economici e culturali.
A partire almeno dall’VIII secolo e poi per tutto il Medioevo, il mondo musulmano è stato caratterizzato da una grande mobilità, che ha favorito la diffusione dei suoi costumi, anche alimentari, in tutte le regioni con cui ebbe dei contatti. Nel contempo gli arabi assorbirono dalle altre culture costumi diversi, l’importante è che essi rispettassero il concetto di halal e di haram, ossia di lecito e di proibito. Due erano i divieti fondamentali: il consumo di carne di maiale (più in generale la carne non macellata secondo le regole rituali) e di bevande alcoliche. Questi veti a ben guardare avevano tutte ragioni igieniche. La cucina era, infatti, per gli arabi strettamente connessa alla salute. Non a caso vi sono numerosi trattati di medicina che dedicano ampio spazio all’alimentazione, dettando regole ancora attuali, come il rispetto della stagionalità.

L’alimento principe era rappresentato dalla carne, sopratutto quella di agnello o di montone, raramente di bovino. Gli animali dovevano essere macellati unicamente per sgozzamento ed essere sani e non destinati al lavoro o alla riproduzione. Tutto questo avveniva sotto la sorveglianza di un ispettore, il muthasib, che vigilava sul rispetto delle norme igieniche e sulle frodi alimentari. Diffuso era anche il consumo di cereali, in modo particolare grano ed orzo, ed importanza fondamentale aveva il pane, che ogni famiglia preparava per il proprio fabbisogno. Erano conosciuti anche il bulgur (grano spezzato) ed il couscous, che era una versione meno raffinata di quella attuale. Le popolazioni che vivevano lungo le coste facevano anche grande consumo di pesce. Ma molto apprezzato era anche il pesce d’acqua dolce, anche se ritenuto meno pregiato. Si faceva, inoltre, ampio uso di verdure, legumi (sopratutto lenticchie) e frutta, sia fresca che secca.

Largamente impiegate nella cucina araba erano le spezie che, dato il loro elevato costo, erano appannaggio dei ricchi. Ai meno abbienti erano riservati l’aglio, la menta e l’aneto, diffusamente usati per insaporire diverse vivande. I prodotti caseari, molto apprezzati soprattutto dalle popolazioni nomadi, dedite all’allevamento, furono durante il Medioevo sempre meno utilizzati, anche se il latticello ed il formaggio bianco erano ingredienti usati in parecchi piatti. Si condiva in genere con olio di oliva o di sesamo, ma per cuocere era spesso impiegato il grasso estratto dalla coda del montone. Largamente consumati erano i dolci, tutti a base di miele e frutta secca.

I canoni alimentari della cucina islamica moderna non sono molto differenti da quelli in uso nel Medioevo. Inoltre, è doveroso sottolineare che, con l’avvento dell’Islam, gli Europei, pur continuando a consumare cibi introdotti dagli arabi, come gli agrumi, il riso ed i carciofi, cercarono di discostarsi dalle abitudini alimentari di questi ultimi, per sottolineare la loro diversità dai “mori”, non riuscendo tuttavia ad arginare gli apporti della cucina araba, che tutt’oggi sopravvivono nella nostra. Tra i piatti simbolo di questa contaminazione c’è il couscous, chiamato anche kuskus, seksu, kesksu, cuscus o cuscussu. Il termine, derivante dalla radice kaskasa, che significa “pestare”, indica una preparazione a base di semola cotta al vapore, condita con uno stufato molto speziato a base do carne, pesce e/o verdure. Piatto di antiche origini, molto diffuso nei Paesi arabi del Nord Africa, che tradizionalmente era servito la notte di lunedì e venerdì, come vuole la Sunna. Ben conosciuto in epoca medievale in Occidente, il couscous fu il cibo che permise la sopravvivenza dei prigionieri europei che ebbero la sventura di cadere nelle mani dei corsari arabi.

Pilastri della cucina araba sono poi il tè ed il caffè, due bevande di cui si diffuse il consumo in Occidente solo nel XVII secolo, mentre in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa erano da secoli popolarissime. In realtà il tè arriva in questi Paesi con le carovane dei mercanti arabi, che arrivavano fino in Cina con i loro commerci. Secondo una delle molte leggende fiorite sull’origine del caffè, pare che questo sia stato scoperto casualmente all’inizio del VII secolo da un pastore di capre yemenita, che per primo avrebbe fatto caso alla particolare vivacità che i suoi animali avevano allorché brucavano i frutti rossi di un arbusto profumato. Secondo altri, il caffè sarebbe originario della regione di Caffa (da cui deriverebbe il nome) e verso il VI secolo sarebbe stato importato nello Yemen. Gli arabi, comunque sia, consumavano il caffè, sotto forma di decotto di foglie e semi (la tostatura e la macinazione dei semi risale solo al Quattrocento), già nell’VIII secolo. Il caffè giunse in Occidente dal Vicino Oriente e dall’Impero Ottomano sul finire del XVI secolo e venne chiamata da molti “acqua nera”, in quanto ritenuta un’invenzione diabolica per i suoi effetti eccitanti e fu solo Clemente VIII, che pare l’amasse in modo particolare, a farne una bevanda cristiana a tutti gli effetti. In Occidente, infatti, molto spesso la Chiesa, nel tentativo di arginare la diffusione di usi culinari islamici, assegnava loro una valenza diabolica, ottenendo però molto spesso l’effetto contrario.

Fu così ad esempio che, attorno alla metà del XII secolo una delle più grandi figure teologiche dell’occidente, Pietro di Mointboissier (1092?-1156), abate di Cluny, credette che l’unico modo, con cui il Cristianesimo avrebbe potuto affrontare l’Islam, sarebbe stata la dimostrazione della nudità dei principi teologici di quest’ultimo e per questo ordinò la traduzione del Corano in latino. In tal modo, però, assieme alla teologia islamica, l’Occidente cristiano venne a conoscenza del significato della “felicità”, espresso nelle descrizioni del paradiso dell’Islam, un luogo ove il ruolo principale lo avevano i sensi. Ma già prima di lui, un ebreo spagnolo che si era convertito al cristianesimo, Petrus Alfonsi, aveva composto una collezione di “leggende dell’oriente” nel tentativo di condanna alla dissolutezza dei maomettani. Questi tentativi si rivelarono vani… il libro andò a ruba in tutta Europa proprio perché descriveva nel dettaglio i piaceri che la vita dopo la morte riservava ai credenti di Maometto…

Era tale l’impressione che agli occidentali cristiani arrecò la descrizione del paradiso dei maomettani, che l’idea di una vita dopo la morte immersa nei godimenti sensuali, in cui trovò un ruolo fondamentale il cibo, si fece largo nei romanzi e nella narrativa fantasiosa dell’epoca. Manoscritti come “La scala di Maometto”, tradotti in latino, francese e spagnolo, circolavano attorno alla metà del XII secolo di mano in mano. “La scala di maometto” era il racconto dell’ascesa del Profeta ai diversi livelli del paradiso. L’immagine principale, in tutti i livelli del paradiso, era costituita dai giardini, ove in ogni angolo si trovava ogni genere di leccornia che mente umana potesse immaginare. Il fedele, avrebbe potuto assaggiare vini aromatici e colorati in innumerevoli varianti ed anche se non fosse bastato tutto ciò, un albero, su ordinazione, avrebbe potuto offrire 70.000 diverse qualità (avete letto bene!) di pietanze. E non si può, infine, far a meno di ricordare “Il giardino profumato” (o meglio Il giardino profumato per la ricreazione dell’anima) composto nel 1519 da Muhammad an-Nafzawi, verosimilmente uno sceicco tunisino. Sembra che an-Nafzawi, condannato a morte dal suo signore, il sultano Adb al-Aziez Farid, ottenesse da questi la promessa di aver salva la vita solo se avesse scritto qualcosa che risvegliasse i suoi sensi sopiti. Nacque così il primo testo della letteratura erotica araba, in cui, accanto alla precisa descrizione di rapporti sessuali, figurano una serie di prescrizioni igieniche e cosmetiche, nonché una buona quantità di ricette destinate “ad aumentare il vigore nel coito”.

… e dopo tanto parlare ecco una ricetta a base di tahina, miele ed olio di sesamo… ingredienti tipici della cucina islamica.

Crema di cioccolato con tahina

Ingredienti: 150 gr di tahina, 50 gr di miele, 40 gr di olio di sesamo, 50 gr di cioccolato fondente al 60-70% sciolto a bagnomaria, 50 gr di burro ammorbidito.

Mescoliamo la tahina con il miele e l’olio di sesamo. Aggiungiamo il cioccolato sciolto ed infine il burro. Quando la crema risulterà ben amalgamata versiamo nelle coppette e lasciamo in frigo almeno per un’ora.

domenica, giugno 18, 2006

Reflections

The reality is not important, what is interesting is how you see it...
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The reflections have a perfect amount of distortion to make them endlessly viewable...

mercoledì, giugno 14, 2006

Buon InWeDay a tutti!

Il mio ingordo contatto con le pagine dei bloggers mi guida frettolosamente verso un'ipotesi: ai tempi in cui la lingua del racconto, della critica, dei comizi pubblici, dei mezzi di comunicazione che esalano il loro ultimo respiro nei bassifondi, nella poltiglia del life style e della narrazione ruminante, nel tedio accademico... contemporaneamente, negli effimeri giardini della rete viene coltivato uno stile che è provocatorio, eccitante per la mente, ammaliante e costretto...
In questi stili intravedo un'avventura, sento il fremito della scrittura e nutro questo hobby esigente con passione.
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Buon InWeDay a tutti!

domenica, giugno 11, 2006

Ashes and Snow

"Ceneri e neve", una creazione che non ha bisogno di analisi, semplicemente tranquillità per ammirare ciò che si ha davanti...
Forse uno degli attimi che tutti ricerchiamo...
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“In exploring the shared language and poetic sensibilities of all animals, I am working towards rediscovering the common ground that once existed when people lived in harmony with animals. The images depict a world that is without beginning or end, here or there, past or present.” Gregory Colbert, creatore di Ashes and Snow.

mercoledì, giugno 07, 2006

Moussakas... variazioni sul tema

Nonostante abbia già parlato in un post del muossakas... la "versatilità" di questo piatto mi spinge a riparlarne per condividere con voi una nuova versione.
Sandra proprio ieri ha proposto la sua variante che assomiglia alla ricetta che ho assaggiato qualche tempo fa al ristorante Spondi di Atene (tra i 100 migliori ristoranti al mondo) in occasione di un ricevimento. Credo che sia stato proprio il ricevimento di per sè a spingere lo chef a sentirsi svincolato e ad infrengere "le regole"... "partorendo" così un piatto che rispetta quello tradizionale, ma che si evolve e si alleggerisce adattandosi alle richieste attuali.
Questa è la ricetta, ottenuta dallo chef dopo un tenace "assedio"...
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Ingredienti per il moussakas: 1 Kg di spalla di agnello senza grasso, 4 spicchi di aglio tritato finemente, 1 cipolla media tagliata finemente, 1 cucchiaio di polpa di pomodoro, 2 cucchiai di prezzemolo tritato finemente, 200 gr. di kefalotiri (o caciotta di mucca stagionata), 6 melanzane fresche di media grandezza, 100 ml di olio extravergine di oliva, olio per friggere, 1 cucchiaio di farina, sale e pepe bianco.
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Ingredienti per la salsa: 60 ml di olio extravergine di oliva, 2 spicchi di aglio, 1 cipolla media tritata finemente, 1 cucchiaio di polpa di pomodoro, 1 Kg di pomodori rossi maturi, 150 ml di vino moscato, 50 gr di sedano, sale e pepe bianco.
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Sbucciamo, togliamo i semi e tagliamo a dadini i pomodori. Facciamo soffriggere l'aglio ed aggiungiamo il sedano e la cipolla. Aggiungiamo la polpa di pomodoro, spegnendo tutto con il vino bianco. Aggiungiamo i pomodori e facciamo cuocere per cinque minuti. Versiamo tutta questa salsa nel frullatore e poi la passiamo ad un setaccio a maglie sottili. Saliamo e pepiamo a piacere, controllando che sia ben legata, poiché la salsa deve essere leggermente densa.
Tagliamo la carne di agnello a dadini, facciamo soffriggere poco per volta in olio bollente e scoliamo. Facciamo soffriggere l'aglio e poi aggiungiamo la cipolla. Mettima anche i pezzetti di agnello, cospargiamo con la farina e versiamo dell'acqua. Abbassiamo il fuoco e facciamo bollire per circa un'ora. A fine cottura la carne deve risulatare ben legata alla sua salsa. Facciamo raffreddare ed aggiungiamo il formaggio tagliato a dadini, il prezzemolo, il sale ed il pepe.
Nel frattempo dopo aver tagliato le melanzane longitudinalmente, le laveremo e le ascigheremo per bene. Le friggiamo in olio bollente e le facciamo scolare su carta assorbente.
Con le melanzane "rivestiamo" le pareti di una cocottina, lasciando fuori le estremità. Riempiamo con il ripieno di agnello e chiudiamo con le estremità delle melanzane. Inforniamo le cocottine per 12 minuti a 180°.
Giriamo la cocottina al centro di un grosso piatto e versiamo un po' della salsa intorno.
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Καλη Ορεξη!

domenica, giugno 04, 2006

14 Giugno - Giornata Internazionale dei Webloggers

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Non ci crederete... ma anche i webloggers hanno la loro giornata internazionale, InWeDay (così è chiamata ufficialmente), fissata nel calendario il 14 Giugno, in ricordo della prima comparsa di un blog nel network il 14 Giugno 1993. E' un giorno dedicato alla scoperta di nouvi blogs e che ci dà la possibilità di sentirci parte di un'unica grande comunità!
Se ci basiamo sui dati della ricerca fatta dal New York Times, secondo cui ogni 40 secondi nasce un nuovo blog negli Stati Uniti, risulta difficilissimo quantificare il numero esatto degli "scrittori di diari on-line" (detti barbaricamente "blogger"). Sicuramente si tratta di un numero assai elevato, che non permette, dato il poco tempo a disposizione, l'organizzazione di raduni a livello nazionale...
Tuttavia, proporrei che per quel giorno ognuno di noi pubblicasse un post "festivo", in cui spiega ciò che rappresenta e che cosa gli ha arrecato il proprio "diario on-line"!
Chi volesse avere informazioni e diventare partecipante ufficiale di questa giornata clicchi qui.
E non dimenticate di diffondere la notizia a tutti i vosti amici bloggers e non.

venerdì, giugno 02, 2006

Miele... un pezzetto di cielo caduto sulla terra!

Il miele… è l’alimento naturalmente più dolce conosciuto dall’uomo. Raccolto fin dagli albori dell’umanità… come ci testimonia una pittura rupestre nella Grotta del Ragno di Valencia (8000 a.C. circa) in cui è raffigurato un nido di api ed un cacciatore di miele. Ma le api furono “addomesticate”, cioè alloggiate in alveari artificiali, molto tempo dopo, quando l’uomo, da cacciatore nomade si trasformò in agricoltore. Nell’Egitto dei faraoni l’apicoltura era nota… le api, infatti, compaiono nei geroglifici già verso il 4000 a.C. e poi in molti bassorilievi ed affreschi, come sul sarcofago di Mychirinos (2500 a.C.) o sulla tomba di PA-BU-SA a Tebe (625-610 a.C.), ove è raffigurato un apicoltore che raccoglie il miele da un’arnia in terracotta a forma d'anfora.
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Il miele in tutte le più antiche civiltà e letterature è stato simbolo di ciò che di più desiderabile si potesse avere. In una poesia d’amore di 4000 anni fa, scritta su una tavoletta d’argilla sumerica, lo sposo è descritto “dolce come il miele” e la carezza della sposa “più piacevole del miele”. Non si deve dimenticare, inoltre, che nell’Antico Testamento la Terra Promessa è definita come “la terra che stilla latte e miele”.
Nella Grecia classica e a Roma il miele era un importante ingrediente sia della cucina, sia della cultura. Veniva utilizzato per dolcificare pane, focacce e salse… e serviva per produrre vari tipi di vini dolci, come l’ossimele e l’idromele. Il libro di cucina attribuito ad Apicio fornisce ricette per conservare frutta e carne nel miele e consiglia di usare questo alimento in vari piatti fatti con noci, frutta, uova, formaggio fresco e pane fritto. Per i Greci il miele aveva anche un valore talismanico. Veniva offerto ai morti e agli dei durante le cerimonie… non a caso le sacerdotesse delle dee Demetra, Artemide e Rea erano chiamate melissai (la parola greca melissa significa ape).
Questo stato privilegiato del miele era dovuto in gran parte alle sue origini misteriose… Aristotele, che per primo si dedicò allo studio delle api, dichiarò che “non si può dire con esattezza quale sia la sostanza che le api raccolgono, né l’esatto progresso del loro lavoro” ed ipotizzò che raccogliessero rugiada caduta dal cielo. Anche il poeta romano Virgilio dedica l’intero quarto libro delle Georgiche alle api iniziando così: “Seguitando, del miele aereo il dono celestiale descriverò”. Anche il suo contemporaneo, Plinio il Vecchio, ci ha lasciato delle teorie sulla natura del miele: “Il miele viene dall’aria… Alla mattina presto le foglie degli alberi si trovano coperte di gocce di miele… Sia che si tratti del sudore del cielo o di una specie di saliva delle stelle, o dell’umidità prodotta dall’aria che purga sé stessa, cionondimeno porta con sé il grande piacere della sua natura celeste”.
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Dovettero passare più di mille anni prima che fosse scoperto il vero ruolo delle api e dei fiori nella creazione del miele. Le conoscenze scientifiche non subirono in età medievale alcuna evoluzione significativa ed i testi di Aristotele, Plinio, Varrone, Columella ed altri autori classici rimasero i principali riferimenti teorici sull’argomento fino al XVI secolo.

Durante tutto il Medioevo, oltre all’apicoltura in arnie, si affermò anche quella cosiddetta “forestale”, soprattutto nelle regioni orientali (Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Russia). Questa tecnica prevedeva che ogni anno, in primavera, i “cacciatori di miele” si inoltrassero nelle foreste per contrassegnare con un’incisione gli alberi che ospitavano uno sciame selvatico: l’intaglio valeva come attestato di proprietà sullo sciame, da cui nessun altro poteva prelevare il miele. Questa pratica si radicò a tal punto da generare dei veri e propri “sentieri delle api”. L’apicoltore si arrampicava sugli alberi fino all’alveare, con del fumo allontanava la colonia di api e recideva il favo colmo di miele, che poneva in delle ceste apposite. Al di là del suo grado di purezza, dovuto alla spremitura da cui proveniva, i trattati medievali mostrano come una serie di fattori influenzasse il gusto dei contemporanei nei confronti di questo alimento. Il miele cotto veniva preferito al crudo perché ritenuto maggiormente curativo, quello chiaro (“color della paglia nova”) a quello scuro, quello estivo a quello autunnale, quello di provenienza attica e siciliana a quello spagnolo ed orientale, di cui si arrivava a dire che contenesse del veleno. Importante era anche conoscere la specie vegetale da cui proveniva il nettare poiché, come emerge dal trattato quattrocentesco di un medico veneto, il miele ha un buon sapore se prodotto da api “paffute de bono fiore”. Ci sorprenderebbe sapere in tal senso che il miele di castagno, oggi ritenuto una prelibatezza, era allora disprezzato proprio per il suo caratteristico gusto amarognolo. Il miele, tuttavia, ebbe il suo trionfo nella cucina aristocratica del XIV secolo e in quella rinascimentale. Nelle mense dei ricchi, veniva utilizzato in ogni piatto, per arricchire i sapori di pietanze diverse come carne arrosto o bollita, pesce, minestre, zuppe e sformati, nonché in quasi tutti i ripieni.
Il miele fu largamente usato in tutta Europa fino al 1500 circa, quando venne soppiantato dalla diffusione dello zucchero di canna, che era più facile da conservare. Fu però sempre considerato il fratello povero dello zucchero, perché prodotto ovunque e con costi contenuti e quindi un cibo non esotico, al contrario di quelli importati dall’Oriente.
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La produzione del miele può essere a ragione definita come un vero e proprio miracolo della natura… L’ape raccoglie il nettare infilando la sua lunga proboscide nel nettario (ghiandola nettarifera del fiore). Nel frattempo il suo corpo raccoglie il polline (principale fonte di proteine e vitamine per le larve dell’alveare) dalle antere. Il nettare aspirato dall’ape passa per l’esofago ed entra nella borsa melaria, che è un vero e proprio serbatoio in cui è conservato il nettare fino al ritorno all’alveare. Il lavoro principale nell’alveare consiste nel concentrare il nettare, affinché diventi resistente ai batteri e alle muffe. Il primo passo di questo trattamento è eseguito da api “casalinghe”, a cui le raccoglitrici passano il loro carico. Queste operaie, a volte sole, a volte in lunghe file, pompano il nettare dentro e fuori dai loro corpi, formando ripetutamente piccole gocce… alla fine l’ultima ape della catena deposita un sottile strato di nettare concentrato sul favo. Qui il nettare evapora ancora, finché non rimane che il 20% di acqua. Questo processo di “maturazione” richiede circa tre settimane e non è del tutto passivo. L’ape riempie le celle del favo di nettare fresco solo per un terzo, in modo da lasciare molta superficie esposta all’aria, favorendo l’evaporazione dell’acqua. Il miele quasi maturo è trasferito in celle che vengono riempite per tre quarti, mentre il miele maturo in celle che vengono riempite fino all’orlo e poi chiuse con uno strato di cera. Queste vengono scoperchiate al momento dell’estrazione del favo dall’arnia per raccogliere… il miele.

Cosciotto di maiale con miele ed erbe aromatiche


Ingredienti: 1 cosciotto di maiale, 1 mazzetto di basilico fresco, 1 cucchiaio di rosmarino, 2 cucchiai di prezzemolo tritato, 50 gr di gherigli di noci, 4 spicchi di aglio finemente tritati, ½ tazza di sambuca, 3 cucchiai di miele, 250 ml di olio extravergine di oliva, 1 cucchiaio di sale e pepe macinato fresco.

Mettiamo nel mixer le erbette, le noci, l’aglio e l’olio ed otteniamo un pesto. Versiamolo in una ciotola ed aggiungiamo il miele e la sambuca. Mescoliamo finché gli ingredienti siano ben amalgamati. Con un coltello, tagliamo dal cosciotto metà della pelle e l’altra metà la stacchiamo dalla carne, ma non la eliminiamo, lasciandola attaccata al malleolo. Spennelliamo questa parte della carne con il pesto e ricopriamola con la pelle: Spennelliamo la restante carne con il pesto restante e saliamo.Foderiamo una teglia con molta carta da forno (la quantità necessaria per avvolgere il cosciotto), versiamo 3 tazze di brodo di carne e due teste d’aglio tagliate a metà. Vi poniamo il cosciotto, chiudiamo la carte da forno e mettiamo in forno preriscaldato a 200°. Lasciamo cuocere per un’ora e un quarto per ogni chilo di carne.