mercoledì, marzo 22, 2006

Le armonie… del cibo

Da sempre cibo, vino e buona musica sono un connubio indissolubile che riescono a soddisfare tutti i nostri sensi… ed è proprio questo che il CD Food, Wine & Song, prodotto da Harmonia Mundi, riesce a ricreare.
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Compiendo un viaggio ideale tra le musiche ed i banchetti del Medioevo e del Rinascimento, questo CD riesce a riscoprire e valorizzare un patrimonio di musica e sapori, grazie alla maestria di compositori quali Guillaume de Machaut, Richard Smert, Heinrich Isaac, Guillaume Dufay, Gilles Binchois, Juan Ponce e molti altri. Il cofanetto contenente il CD è anche impreziosito da un libretto contenente 23 ricette tratte da fonti del XIV e del XV secolo, riviste e riadattate da cuochi moderni, che spesso hanno lavorato di fantasia, ma che hanno rispettato tecniche ed ingredienti dell’epoca. I piatti proposti spaziano dalla “Minestra di piselli secchi, addensata con pane alle spezie e servita con pollo confit” all’” Omelette all’arancio per ruffiani e baldracche”, dai “Tortelloni con ricotta, limone, e pinoli” al “Manzo e montone bollito con salsa di pane aromatica”, dal “Branzino arrosto con finocchio” ai “Porri e barbabietole intere brasati con uva secca” e alla “Torta allo zafferano” …
Alcuni dei brani proposti sono in relazione con le ricette proposte, altri sono invece uno spaccato di vita dell’epoca medievale e rinascimentale, la descrizione di comportamenti sociali e “culinari”. Così nel brano Chançonette / Ainc voir / A la cheminee / Par verité le diverse voci cantano l’amore non corrisposto, la seduzione, la “carne salata, capponi grassi… il giuoco dei dai e della tavola reale”, i vini renani e quelli francesi. Prenés l'abre / Hé resveille toi Robin, composto da uno dei più noti trovatori del Duecento, Adam de la Halle, accompagna un picnic in campagna. Il brano Si quis amat di un anonimo compositore inglese è un saggio sul comportamento a tavola, ove l’autore sottolinea l’importanza di lavarsi spesso le mani durante il pasto, di non pulirsi i denti con il tovagliolo, di non fare rumore e di non mettersi le dita nel naso. Nel Cacciando per gustar, di Antonio Zachara da Teramo (cantore papale dei primi del Quattrocento), ci sono molti richiami, in dialetto romanesco, alle urla dei venditori di olio, uova e mostarda. Anche il brano portoghese Quem tem farelos è un inno ai chiassosi e variopinti mercati dell’epoca.
“Gustando” questa musica con del buon vino e con una delle ricette proposte, riuscirete insomma ad immergervi in una perfetta atmosfera medievale… ma non dimenticate mai il consiglio di Leonardo da Vinci: “…non mangiar senza voglia e cena leve, mastica bene e quel che in te riceve sia ben cotto e di semplice forma…

venerdì, marzo 17, 2006

Perché l’amore è cieco e pazzo.

Un giorno si radunarono da qualche parte sulla terra tutti i sentimenti e le virtù dell’uomo. La Pazzia dopo essersi presentata tre volte alla Noia, propose di giocare a nascondino. L’Interesse, alzando il sopracciglio, aspettò di sentire mentre la Curiosità, non potendosi trattenere, chiese: “Cos’è il nascondiglio?” L’Entusiasmo cominciò a ballare con l’Euforia e la Gioia cominciò a saltare su e giù pur di riuscire a convincere il Dilemma e l’Apatia – che non si interessava mai di niente – a giocare anche loro.
Tuttavia, c’erano tanti che non volevano giocare: la Verità non voleva in quanto sapeva che ad un certo punto si sarebbe rivelata. La Superbia trovò il gioco stupido e la Viltà non voleva rischiare. “Uno, due, tre” cominciò a contare la Pazzia, e tutti corsero a nascondersi…
Per prima si nascose la Pigrizia. Poiché era svogliata, andò dietro la prima roccia che trovò. La Fede volò verso il cielo e la Gelosia si nascose all’ombra del Trionfo, che con la sua forza riuscì ad arrampicarsi sull’albero più alto. La Generosità non poteva nascondersi, in quanto ogni posto che trovava le sembrava stupendo, e volendo offrirlo come nascondiglio ad un altro amico, lo lasciava libero. Così la Generosità si nascose dietro un raggio di sole. L’Egoismo, al contrario, trovò come nascondiglio un luogo che andava bene solo a lui. La Menzogna si andò a nascondere nel fondo dell’oceano. La Passione ed il Desiderio si nascosero all’interno di un vulcano. L’Eros non aveva trovato ancora un luogo in cui nascondersi. Per lui tutti i nascondigli erano occupati, finché non trovò un cespuglio di rose.
“…998, 999, 1000” contò la Pazzia e iniziò a cercare. Il primo che scovò fu la Pigrizia, visto che si era nascosta vicinissima. Dopo trovò la Fede, che parlava con Dio di teologia. Sentì il “pulsare” della Passione e del Desiderio nel fondo del vulcano e trovando la Gelosia non fu affatto difficile trovare anche il Trionfo… scovò facilmente il Dilemma, che non aveva ancora deciso dove nascondersi. Pian piano trovò tutti, tranne l’Eros.
La Pazzia cercò ovunque, dietro ogni albero, sotto ogni pietra, sulla cima delle montagne, ma niente. Quando era quasi pronta ad arrendersi, trovò un cespuglio di rose e cominciò a scuoterlo nervosamente fino a quando sentì delle grida di dolore. Era Eros che gridava, poiché i suoi occhi erano stati feriti dalle spine delle rose. La Pazzia non sapeva come rimediare, piangeva, chiedeva scusa e alla fine promise di diventare la sua guida.
Così da allora l’Eros è sempre cieco e accompagnato dalla Pazzia!
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Dedico questa ricetta alla mia carissima amica Sarit augurandole di trovare un amore dal gusto intenso e variegato come il piatto a cui ho dato il suo nome!
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Involtini di pollo porchettati su purè di mele all’amore di Sarit


Ingredienti per gli involtini: 1 petto di pollo, 150 gr di pancetta affumicata tagliata a fette sottili, ½ cucchiaio di pinoli, 3 prugne secche, ½ cucchiaio di uva passa, 50 gr di ricotta, ½ cucchiaino di semi di papavero, ½ cucchiaino di semi di finocchio, ½ cucchiaino di buccia grattugiata di limone, 400 ml di vino bianco, 1 spicchio di aglio, 4 foglie di salvia, 1 rametto di rosmarino, 5 cucchiai di olio, sale e pepe.
Ingredienti per il purè: 3 mele golden, 1 cucchiaio di succo di limone, 20 gr di burro.
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Tagliate il petto a fette, battetele con un batticarne per renderle sottili. Preparate uno dei due ripieni unendo i pinoli con l’uva passa e le prugne tagliate a pezzetti e condendo con un pizzico di pepe ed un filo d’olio; e l’altro con la ricotta, i semi di papavero, quelli di finocchio, la buccia di limone ed un pizzico di sale. Riempite ogni fetta di pollo con un cucchiaino di ripieno, arrotolate ed avvolgete ogni involtino con qualche fetta di pancetta. Legate ogni involtino con dello spago da cucina per non farli aprire. Mettete gli involtini in una padella con l’olio e l’aglio. Fate rosolare, girandoli di tanto in tanto , in modo che si colorino in modo uniforme. Aggiungete la salvia, il rosmarino, il sale, il pepe ed irrorate con il vino. Fate cuocere a fuoco medio-basso, finché la salsa non si addensi e girando di tanto in tanto gli involtini.
Nel frattempo, preparate il purè. Sbucciate le mele, tagliatele a pezzetti e mettetele a cuocere in una pentola con un poco di acqua. Quando l’acqua si sarà ritirata e loro saranno cotte, frullatele con il mixer ad immersione. Aggiungete il succo del limone ed il burro.
Slegate gli involtini. Versate qualche cucchiaio di purè sul fondo del piatto adagiateci sopra gli involtini e condite con uno o due cucchiai del loro fondo di cottura.

sabato, marzo 11, 2006

Il Mavrodafne e l'Eucaristia

L’idea di scrivere questo post mi è venuta quando ho ricevuto in dono, dai miei cari amici Voula e Giannis, una preziosissima bottiglia gran resèrve del 1996 di Mavrodafni Axaïa Clauss.
La casa vinicola Axaïa Clauss, che si trova 8 Km a sud-est di Patrasso, sull’omonimo colle, fu fondata nel 1861 dal Bavarian Baron Von Gustav Clauss. In tale posizione idilliaca, che costituisce l’acropoli di Patrasso, c’erano fin dall’antichità dei vitigni di uve rosse, definiti dal Barone Von Clauss “mavrodafne” per onorare la memoria della sua fidanzata Dafne, una bella mora greca dagli occhi neri, morta in giovane età di tubercolosi.
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Clauss, insieme alla casa vinicola, costruì una piccola comunità che comprendeva una chiesa cattolica ed una ortodossa. Quasi tutti i lavoratori, insieme alle loro famiglie, vivevano in questa comunità. Vorrei sottolineare il fatto che molte delle persone delle 15 famiglie, che vivono attualmente ad Axaïa Clauss, sono discendenti di quei primi operai assunti da Clauss.


E’ un vino dai riflessi rosso rubino, con aromi di ciliegie, vaniglia, uva passa, prugne nel cognac e cioccolato, invecchiato in botti di rovere di Trieste ornate, prodotto dall’omonima qualità di vitigni con l’aggiunta di uva passa di Corinto, con il diritto di DOP solo quando la varietà Mavrodafne partecipa al vino finale in una quantità superiore al 50%. Rientra nella categoria di “vins de liqueur”, che riscalda il cuore e stimola i sensi, mentre dal primo sorso, il buon umore si dipinge sul viso. Questo si spiega, dal punto di vista enognostico, dal fatto che tra i quattro sapori fondamentali della lingua, l’aspro, l’amaro, l’acro ed il dolce, solo quest’ultimo è considerato piacevole ed accettato da tutti. Non c’è dubbio che l’accettazione da parte di tutti di un’inaspettata dolcezza al palato, rappresenta sempre una pausa nella dura quotidianità, dipingendo in modo soave e dolce ogni momento della nostra vita unico ed indimenticabile.

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Per tutte queste caratteristiche, questo vino nero ha assunto un significato importantissimo per gli ortodossi, come componente principale della “metalavia”, ossia della liturgia eucaristica.

L’Eucaristia o Eucarestia (dal greco ευχαριστω, eucharisto, rendimento di grazia) è il sacramento istituito da Gesù nell’imminenza della sua morte durante l’ultima cena.
Ogni forma di vita per continuare ad esistere ha necessità di soddisfare dei bisogni fondamentali. Per l’uomo, fra quelli fondamentali vi sono il mangiare ed il bere.
Aver fame” significa provare il bisogno del cibo, elemento indispensabile al mantenimento ed alla conservazione della vita.
Aver sete”, significa provare il desiderio di una bevanda che ci permetta di reidratare il corpo. Si tratta di un bisogno ancor più impellente della fame, e che, se non soddisfatto, mette rapidamente l’uomo in pericolo di morte.
Pertanto, mangiare e bere, e farlo assieme ad altre persone (ossia fare un pasto in comune), sono atti essenziali della vita dell’uomo, che hanno pure un significato simbolico.
Con l’atto del mangiare interrompiamo uno sviluppo normale volgendolo a nostro beneficio: ci si nutre della vita “dell’altro”, sacrificato per noi, dato per noi.

Gesù sceglie il pane (Luca 22,19) ed il vino (Luca 22,20) come segni eucaristici perché sono elementi presenti in Pèsach, la Pasqua ebraica. Sceglie questi due elementi e li mette in relazione ai bisogni fondamentali dell’uomo: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà più fame e chi crede in me non avrà più sete…” (Giovanni 6,35).

Tanto il pane quanto il vino, richiedono da parte dell’uomo un lavoro di fabbricazione che trasformi il grano in pane e l’uva in vino. Non solo nel pane e nel vino si trova una finalità introdotta dall’intelligenza e dalla fatica dell’uomo, ma sono pure elementi ricchi di tutto un simbolismo umano, familiare, sociale.

Il vino è simbolo di gioia, di forza, di festa. Occupa un posto importante nella vita sociale, sia che si tratti di “annaffiare” un evento lieto, che di brindare insieme o bere al medesimo bicchiere per significare l’unità di una coppia o di un gruppo.
Alle origini l’Eucaristia era chiamata “frazione del pane” perché per un cristiano l’Eucaristia non è solo il mangiare del pane e il bere del vino divenuti corpo e sangue di Gesù, ma il condividere un pasto simbolico, che accomuna e che riunisce.
Così, come un pasto simboleggia e sigilla la comunione e l’unità di coloro che vi partecipano, i “commensali”, ovvero persone partecipi della stessa vita, così per i cristiani è l’Eucaristia.
L’Eucaristia è tutto questo: è il sacramento che corrisponde a questa azione essenziale alla vita dell’uomo, azione che gli consente di conservare e sviluppare la sua vita; è la trasfigurazione del pasto umano, cioè del fatto di riunirsi per mangiare e bere insieme nella gioia.
Gesù istituisce l’Eucaristia durante la cena del Sèder (Ultima Cena) fatta coi suoi discepoli. Assieme ad essi sta festeggiando Pesach, la Pasqua ebraica (Luca 22, 8). Quindi l’Eucaristia è istituita durante un pasto autentico, che è contemporaneamente un pasto religioso. Ogni Giudeo, nella misura in cui glielo consentiva la sua creatività, doveva rendere personali le preghiere (di benedizione) al pasto. In questo contesto si inseriscono le parole che Gesù pronuncia sul pane e sul vino nell’ultima cena: una preghiera di lode e di benedizione rivolta al Padre. Parole che sono in stretta relazione col fatto che egli sta per dare la sua vita per la salvezza di tutti gli uomini.
Nel pronunciare queste preghiere, Gesù dice: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo” e “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 26-28).

Quindi il pane e il vino divenuti suo corpo e suo sangue, sono anzitutto oggetto di nutrizione e questo nutrimento è offerto ai discepoli radunati. Inoltre, il vino rappresenta il sangue di Cristo, sangue dell’alleanza versato per la salvezza degli uomini; ciò significa che l’azione salvatrice è al centro dell’Eucaristia: Gesù si dona ai suoi nel duplice segno del pane e del vino per nutrirli, per nutrirli insieme e quindi riunirli, per stringere incessantemente una nuova alleanza con loro, per liberarli da ogni schiavitù e specialmente dall’asservimento al peccato.

Poiché il sangue inoltre rappresenta la vita (Genesi 9,4) e non vi è vita senza spirito, bere il sangue di Cristo, cioè il vino dell’Eucaristia, significa fare entrare in noi lo spirito del Messia, cioè lo Spirito Santo: “In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.” (Giovanni 6,53-56), cioè poiché Gesù è Dio stesso, nutrirci di Lui fa entrare in noi la sua vita che è eterna.
Infine, ordinando: “Fate questo in memoria di me” (Luca 22, 19; 1 Corinzi 11, 24), Gesù fa di questo pasto (l’Eucaristia) un segno che, lungo i secoli, si è ripetuto nelle comunità cristiane: memoriale efficace della sua presenza in mezzo ai suoi, del suo sacrificio offerto a Dio per la salvezza di tutti.

Dopo questa “piccola” introduzione sul Mavrodafne e sull’Eucaristia vi propongo una ricetta il cui ingrediente principale non poteva essere altro che... il Mavrodafne.

Filetto di manzo con salsa di Mavrodafne e miele

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Ingredienti: 1Kg di filetto di manzo, 1 cipolla media tagliata finemente, 30 gr di farina, 250 ml di Mavrodafne, 250 gr di miele, sale e pepe bianco, pochissimo timo e 100 ml di olio extravergine di oliva.

Tagliamo i filetti a pezzetti e li scottiamo con l’olio per pochi minuti e li mettiamo a scolare. Nell’olio rimasto soffriggiamo la cipolla, aggiungiamo i filetti, cospargiamo con la farina e spegniamo tutto con il vino. Quando la salsa si addensa, aggiungiamo il pepe ed il sale, il miele ed il timo.

Possiamo accompagnare questo piatto con patate dolci, castagne bollite, mele cotogne o mele al forno. Il vino consigliato è ovviamente... il Mavrodafne.

martedì, febbraio 28, 2006

Pane di fiori come antidoto all'antisemitismo



Ho iniziato a scrivere questo post in occasione dell’assassinio di Ilan Halimi e con lo scopo di dedicarlo ai Coraggiosi di tutte le nazioni di ieri e di oggi, con l’irremovibile convinzione che “l’umano” sconfigge sempre “il barbaro” e che alla fine dei conti, i selvaggi rappresentano la minoranza.
Si tratta di una storia vera che ha avuto luogo a Salonicco, ove prima della Seconda Guerra Mondiale la comunità ebraica raggiungeva le 56.000 persone, mentre alla fine ne rimasero solo alcune centinaia. Questo post vorrei arrotolarlo, infilarlo in una bottiglia e buttarlo nel mare della rete con la speranza che possa far riflettere.
Agli inizi del XX secolo un ebreo residente ad Amsterdam, antiquario e commerciante in diamanti, laureato, amante dei viaggi e giurato single, arrivò a Salonicco, di cui aveva sentito tante cose, ma che non aveva mai visitato. Qui, conobbe una giovanissima ebrea e vuoi per l’atmosfera della città, vuoi per il sotlàch (famoso come kazan ntepi) o per l’arrodeadikos de merendjéna (involtini di melanzane), perse la testa per gli occhi di questa donna e decise di abbandonare il suo palazzo nella piazza dei musei di Amsterdam e di fondare la sua casa a Salonicco.
Costruì una grande e ricca casa, ove i punti strategici erano rappresentati dalle due cucine: in una si facevano solo dolci e nell’altra tutto il resto. La casa era sempre piena di persone, in quanto la coppia era molto aperta ed amava circondarsi di persone di tutti i gruppi sociali, indipendentemente dalla loro religione. La migliore amica della coppia diventò una greca cristiana ortodossa, amante della cucina, in cui passava tantissime ore, ed appassionata dello studio di ricette religiose. Da lei, la nostra coppia, acquisì tantissime “strane” abitudini non ebraiche: fare voti alla Madonna, fare Koliva (grano bollito mescolato con zucchero, cannella, noci ed uva passa, utilizzato dai cristiani ortodossi durante le cerimonie funebri), fare la Fanuropita (tipico pane dolce che si prepara per il giorno della Befana), giustificandosi con la scusa che erano buoni di sapore e che “alla fine dei conti, ebrei, cristiani e musulmani tutti un’anima abbiamo”.
In cucina, le due amiche passavano ore ed ore a chiacchierare, a provare e riprovare ed a cercare di conquistare, per l’ennesima volta, i loro mariti attraverso un piatto “diverso”!
La figlia piccola della coppia, la più bella di tutte, stava sempre in cucina a seguire sua mamma, con l’amica cristiana, cimentarsi nell’arte culinaria. All’interno della stessa cucina, la piccola formò la convinzione che, indipendentemente dalla razza o dalla religione, nella vita erano più forti le donne e che il suo sesso fosse la sua arma segreta.
Quando a Salonicco arrivarono i “barbari”, la vita divenne buia. Furono fatti i primi elenchi dei membri della comunità ebraica e furono distribuite le prime stelle gialle. Il capofamiglia, con l’esperienza acquisita dai suoi viaggi e dai suoi lavori, capì subito che le cose andavano malissimo e prese la decisione di fuggire, ma non ci riuscì perché troppo tardi.
L’amica greca cercò di salvarli nascondendoli, ma i “barbari” ebbero una soffiata e dopo averla torturata scoprirono il loro nascondiglio. Nonostante fosse malconcia per le torture subite, la donna riuscì ad arrivare alla stazione dei treni, dove i suoi vicini ebrei, insieme agli altri ebrei, erano stati radunati per andare, nessuno sapeva dove.
La scena della partenza in treno, nessuno dei sopravvissuti riusciva a raccontarla interamente ai figli e ai nipoti dopo la guerra. Tutti iniziavano a piangere; neanche la figlia piccola e più bella, che era riuscita a sopravvivere grazie alla sua testardaggine e a tornare viva dai campi di concentramento, mentre il resto della famiglia era diventata cenere nei forni crematori, pur non avendo mai pianto nemmeno ai funerali dei mariti (tre!!), dei figli e dei nipoti.
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Lì, al binario, la vicina greca, riuscì ad avvicinarli, zoppicando, e ad augurargli un arrivederci. Per rincuorare la piccola figlia della coppia, che era la sua preferita, in quanto compagna fedele nei “viaggi” quotidiani per le strade dei sapori, le mise in mano un pezzo di pane. Un pane diverso, con un sapore di fiori. Il pane con il sapore dei fiori era l’ultimo sapore dell’amata Salonicco.
Anni dopo, in Israele, ormai nonna, narrò questa vicenda a suo nipote, che aveva trasformato in un piccolo grande cuoco, poiché ce l’aveva sempre in cucina, tra i piedi, dove si preparavano piatti esotici e si raccontavano storie, supervisionandolo ai suoi studi ed inculcandogli sistematicamente e per bene nella mente la convinzione che “tutti gli uomini sono un sangue”. Il rapporto instauratosi tra nonna e nipote, solidificato durante i loro “viaggi” nell’arte culinaria che avvenivano in cucina, era tale che la nonna si permetteva di entrare nella sua vita in modo brusco anche nelle questioni sentimentali. Il nipote, spinto dalla nonna, si trasferì a Parigi, dove divenne uno studioso della filosofia del cibo e poi a New York, dove aprì il suo primo ristorante-laboratorio.
La nonna non appena cominciò a sentire avvicinarsi la fine della sua vita, chiese al nipote un grande favore. Trovare la ricetta del pane con il sapore di fiori. L’ultimo sapore che ha avuto di Salonicco, volle che fosse anche l’ultimo della sua vita. Per il nipote, visto l’immenso amore e rispetto che nutriva per lei, sarebbe stato meglio se gli avesse chiesto di tornare in Europa attraversando l’Atlantico a nuoto. Cominciò la ricerca, andò a Salonicco e chiese in tutta la Grecia del nord se conoscessero questo pane, affidandosi anche all’aiuto di amici per cercare i parenti dell’amica della nonna. Ma niente! Tornando a New York conobbe dei greci a cui il pane di fiori era familiare. Gli promisero che in estate sarebbero scesi tutti in Grecia e lo avrebbero aiutato a cercarlo.
Le condizioni di salute della nonna iniziarono a peggiorare ed il pane non si trovava. Il nipote cominciò a pensare solo a questo. Lo sentiva come il minimo atto di rispetto verso la storia della sua famiglia. Inoltre, a fargli del male era anche il ridicolo della storia... come cuoco era diventato famoso per la sua cucina “diversa”, per le nuove ricette che aveva lanciato, per le sue idee “fresche” sui menù... e non riusciva a trovare la ricetta del pane. Inutile dire che provò di tutto. Passò interminabili notti facendo bollire delle rose, impastando l’infuso con la farina... essiccò dei gelsomini e li tagliò finemente mischiandoli alla farina... sfornò diversi pani e li mandò in aereo a Tel Aviv, ma niente! Il sapore non era quello.
In uno dei suoi viaggi in Grecia, passò da Salonicco e fece un salto in una libreria. Essendo un cuoco scettico nei confronti di gran parte dei libri di cucina, mentre guardava dei libri di fotografia, gli cadde l’occhio su un titolo “Sapori greci, il libro del pane”... lo aprì e venne fulminato dalla frase “pane di fiori”. Per pochi minuti sentì la sua testa martellare. Il fiore della ricetta dell’amica della nonna era il luppolo, famoso anche con il nome di “erba della birra”... doveva essere questo. Sapore più morbido della rosa e più pesante del gelsomino. Telefonò ai suoi amici e chiese se quella pianta si poteva trovare selvatica dalle parti di Salonicco e della Grecia del nord. Gli risposero di si! Nei giorni successivi cominciò la ricerca della pianta magica, ma ricevette la brutta notizia della morte della nonna. Fu la cosa più brutta mai capitatagli nella vita.
Durante i funerali ebraici si portano di solito dei dolci, in quel funerale però arrivarono da Atene trenta grosse pagnotte, impastate una ad una dalle mani del nipote e delle tre amiche della nonna, che erano ancora in vita. Quell’impasto, si fece come doveva essere fatto. Si raccontarono tante storie, si versarono lacrime e si rise.
Durante i funerali, una delle sue exragazze, che “grazie” alla nonna aveva lasciato, gli disse: “non sei riuscito a trovare la ricetta in tempo perché Dio ti ha punito. E questo perché non credi in niente”.
“Io? Credo! Che non credo! Credo solo nella bontà delle persone. E in nient’altro”.
“Chi era questa con cui sei uscito!” “Nonna ti prego! Non te lo permetto più! Ho venticinque anni, non puoi più comandare il mio uccello!”
“Al tuo uccello, uomo perso, comanderò finché non ti sposi. Tienilo ben presente”.
Così mi lasciai con la ragazza del funerale.

Pane di fiori

Il fiore della ricetta è il luppolo o erba della birra, pianta con un bel fiore bianco e molte foglie lungo tutto lo stelo. Una volta raccolto, lo si fa a mazzetti, e lo si secca all’aria. Attenzione non sotto il sole.

Preparazione: prendiamo una manciata di fiori secchi di luppolo e li facciamo bollire per 2 o 3 minuti in un bicchiere d’acqua. Togliamo dal fuoco e aggiungiamo un cucchiaino di zucchero. Copriamo e lasciamo riposare 2 o 3 ore. Dopodichè scoliamo e aggiungiamo all’infuso della farina, tanta quanta serve ad ottenere una pastella densa. La copriamo con un panno di lana (per farla respirare) e la mettiamo vicino ad una fonte di calore. La lasciamo 3 o 4 giorni, finché non otteniamo il lievito di pane, quando sulla superficie compariranno delle piccole bollicine. Mescoliamo il lievito con 1 Kg di farina ed acqua tiepida, tanta quanta serve per ottenere l’impasto. Copriamo e lasciamo in luogo caldo per 15 ore. Questo perché il lievito di pane di luppolo non è così “forte” quindi ci vuole parecchio tempo, affinché il pane lieviti e, quando questo avviene, al massimo è cresciuto una volta e mezzo di volume. Su una tovaglia di cotone, cospargiamo un po’ di farina e facciamo con l’impasto delle pizzette. Stendiamole un po’ e lasciamole seccare all’aria girandole una o due volte. Prima che si secchino completamente, sfreghiamole frantumandole tutte. Lasciamo seccare e raccogliamo in un sacchetto di stoffa. Questo è il “trachanas di fori” che utilizziamo ogni volta che vogliamo impastare il pane. Semplicemente per ogni Kg di pane servono due manciate di trachanas che ammorbidiamo in acqua tiepida (è con questa pastella che prepariamo il pane). Attenzione il segreto, in questa ricetta, è di mantenere una temperatura costante durante tutto il procedimento. Esiste anche un modo più semplice di preparare il pane di fiori ma con il trachanas di fiori il sapore è immensamente più profondo e lascia un buonissimo retrogusto.

domenica, febbraio 26, 2006

La fame come antistrofe.

... I am haunted by the vivid memories of killings & corpses & anger & pain . . . of starving or wounded children, of trigger-happy madmen, often police, of killer executioners . . ... I have gone to join Ken if I am that lucky...
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Tra la Scilla della fame e la Cariddi dell’iperconsumismo scorre il mondo attuale e questo fatto si dimostra, quasi simbolicamente, dalla quasi simultanea edizione negli Stati Uniti, pochi giorni dopo il passaggio catastrofico dell’uragano “Katrina”, di due libri che sono in stretta relazione, anche se prendono avvio da punti di partenza completamente diversi.
Il primo, di Sharman Apt Russel, tratta della fame: “HUNGER. An Unnatural History .” è il suo titolo (ed. “Basic Books”). Il secondo, firmato da William Leith, , è intitolato “THE HUNGRY YEARS. Confessions of a Food Addict.” (ed. “Gotham Books”). Tutti e due tentano di parlare di due argomenti taboo, della fame e dell’obesità, e tutti e due cercano di toccare i due poli traumatici della moderna esistenza.
Esitiamo ad accettare la fame come regola”, scrive Russel. “Ci meraviglia e ci repelle ciò che fanno le persone quando hanno fame. E siamo completamente indecisi per le colpe di ognuno davanti allo straordinario alto numero di coloro che muoiono di fame nel mondo."
Non dobbiamo dimenticare che oggi nel mondo 800.000.000 di persone sono sottoalimentate, ma anche negli Stati Uniti, il Paese dell’abbondanza, un numero superiore a 30.000.000 di persone, 1 su 10, vive in condizione “di insicurezza alimentare”. In entrambe gli antipodi, le memorie di uno scrittore in sovrappeso - ornato con interviste del filosofo francese Jean Baudrillard, fatte dal famoso Dr. Atkins - di Susie Orbach, autrice del libro “Fat is a Feminist Issue”, sono in conclusione la straziante confessione: “nell’orgia della polifagia, a cui ogni tanto si da l’obeso psichicamente disturbato, la tua autostima ferita è un biglietto verso la libertà."
La liberta? Quando i significati si distorcono così tanto, non dobbiamo chiederci niente a riguardo dell’abuso, del disuso e del nulla che domina la nostra epoca!

giovedì, febbraio 23, 2006

Le Cartellate

Anche oggi, giovedì grasso, ho deciso di postare un'altra ricetta del Carnevale... le cartellate sono, infatti, uno dei dolci più tipici della Puglia. Sono dette, a seconda delle diverse varianti dialettali, carteddate, frinzele, scartagghiate, crùstoli
Sono un dolce molto antico, come testimonierebbe una pittura rupestre del VI sec. a.C. rinvenuta a Bari, in cui viene raffigurata la preparazione di un dolce assai simile, di probabile origine greca, associato alle offerte fatte a Demetra, dea della terra, durante i misteri Eleusini. Agli albori del Cristianesimo, queste frittelle rituali si sarebbero trasformate in doni alla Madonna, cucinati per invocarne l’intervento sulla buona riuscita dei raccolti. Le Cartellate sono, inoltre, citate come “Nuvole et procassa” in un resoconto del 1517, stilato in occasione del banchetto nuziale di Bona Sforza, figlia d’Isabella d’Aragona.
In Grecia si prepara un dolce del tutto simile, detto diples, la cui forma è associata proprio come le cartellare alle fasce che avvolgevano Gesù Bambino.
Secondo alcuni il nome deriverebbe da “carta” o “cartoccio”, per la consistenza croccante della sfoglia, secondo altri deriverebbe, invece, dal latino tardo "cartellus" o "cartallus" (canestro, cesta) o dal siciliano "cartedda" (cesta) per la forma tipica che la fa rassomigliare ad un cesto intrecciato.
Possono essere passate nel vincotto o nel miele…
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Cartellate al vin cotto di fichi e cartellate al miele
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Ingredienti: 1kg di farina, 200 ml di vino bianco secco, 300 gr di olio di oliva, 1kg di vincotto di fichi o miele, 10 gr. di sale, 50 ml di acqua tiepida, olio per friggere.
Mettete la farina a fontana e nel centro versate il vino e l'olio. Sciogliete il sale nell’acqua tiepida, versate nell’impasto e lavorate bene. Formate delle palline che stenderete in una sfoglia sottile. Con la rotella tagliate delle strisce della larghezza di 3 o 4 cm. Piegate in due le strisce, in modo che abbiano uno spessore pari alla metà, e arrotolate su se stesse a spirale e fatele asciugare e riposare per circa 12 ore. Friggete le cartellate in abbondante olio bollente. Immergetele nel vincotto di fichi o nel miele. Potete cospargerle di cannella o confettini colorati.

domenica, febbraio 19, 2006

Carne vale!

Oggi i riti del carnevale sono frutto di una società consumista, in cui conta solo ciò che può essere comprato e venduto (viaggi, discoteche, dolci, vestiti e gadget). La storia e lo spirito del carnevale sono diventati ormai solo un mito…
Ma qual è la storia del carnevale?
Le sue radici affondano certamente nelle pratiche pagane legate ad alcune feste. I Saturnalia, ad esempio, in onore del dio Saturno, erano le celebrazioni di fine ed inizio anno (andavano dal 17 al 23 dicembre), in cui si sovvertiva l’ordine gerarchico della società. Si festeggiava la perduta età dell’oro del regno di Saturno, idealizzata dai poeti latini, l'età in cui non esistevano né guerre, né contrasti, in cui non vi era bramosia di guadagni, né schiavitù… e la terra produceva così tante messi che il cibo era in abbondanza per tutti. Durante questa festa, agli schiavi veniva data la possibilità di farsi beffe del padrone, di sedere alla sua tavola e di ubriacarsi, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe meritato frustate, carcere o addirittura morte. Per questo motivo nella settimana dei Saturnalia, come ci attestano Seneca e Plinio il Giovane, Roma era in preda al caos.
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Tuttavia, il Carnevale come noi lo conosciamo è invenzione del medioevo… innanzitutto nel nome: escludendo la ricostruzione etimologica più nota di carne vale (addio alla carne), si è riconosciuto che il nome attuale ha origine altomedievale. Il termine, per la prima volta riferito a questo periodo dell’anno, si trova in un atto redatto a Subiaco nel 965. Inizialmente indicava solo i giorni che precedevano immediatamente la quaresima. Poi in vista dell’imminente periodo di privazioni (non solo in ambito alimentare), la “vigilia” del digiuno divenne un periodo variabile da pochi giorni a molte settimane.

Ma è soprattutto nell’ultima settimana (che culmina nel martedì grasso) che si concentrano i festeggiamenti… ed il consumo di carne a tutti i livelli. Il significato antropologico di questo fenomeno è il voler sottolineare l’elemento stagionale: si consumano le scorte dell’inverno, in modo tale da propiziarsi abbondanza e fertilità. Il significato assunto dalla carne era così importante che in alcune città, come Norimberga, i festeggiamenti erano assegnati alla corporazione dei macellai!

Si sviluppano, inoltre, una serie di comportamenti di tipo folcloristico, di origine precristiana, accomunati da alcune caratteristiche come l’abbondanza di cibo, la sospensione di alcuni divieti, la sottolineatura rituale del passaggio stagionale. Proprio quest’ultimo aspetto inizia a svilupparsi in modo particolare a partire dall’XI secolo. Già nel XII secolo, a Roma e a Londra, le cronache testimoniano alcune usanze pubbliche da parte di alcuni gruppi di persone, per lo più giovani, che si organizzano per ritualizzare questo passaggio, oltre che da un periodo all’altro dell’anno, anche da una determinata condizione, o classe d’età, all’altra. Il carnevale diviene quindi l’occasione per celebrare alcune forme di combattimento, a cui prendono parte varie parti di una stessa città o categorie diverse di cittadini, che si affrontano a suon di bastonate o a colpi di sassi e pugni. Queste forme di festeggiamento, inizialmente tollerato dalle autorità comunali, vengono poi pian piano regolamentate, a causa dei rischi che ne derivavano per l’ordine pubblico.

Da sempre le maschere sono connesse al carnevale… ma per quale motivo? Legata, fin dalle origini, a comportamenti precristiani poi confluiti nel carnevale (i travestimenti ferini connessi alle kalendae januarii) , la maschera assolve varie funzioni: simbolo delle forze della natura, del mondo degli animali e delle sue energie vitali, oppure del mondo dei morti (sarebbero una personificazione dei defunti, eseguita per esorcizzarli e per propiziarseli). La maschera, poiché assimila chi la porta alle sue fattezze, viene condannata dalla chiesa come idolo satanico. Condannata anche dalle autorità civili, per motivo di ordine pubblico, l’uso della maschera riesce a sopravvivere… e nel Rinascimento travestimenti e maschere diventano diffusi, specialmente nelle corti, tanto da dar vita ad uno specifico settore produttivo e commerciale (famose erano nel Cinquecento le maschere di Modena).

Una poesia del XIII secolo descrive la lotta tra due personificazioni: Quaresima, odiato dalla povera gente ed amato dai potenti, muove il suo esercito (fatto di varie specie di pesci, anguille, aringhe e balene armate di spade fatte di sogliole) contro Carneficina (Carnevale), amato dai suoi sudditi perché semina abbondanza e raccoglie intorno a sé le carni, le pietanze condite con le salse, i formaggi e le torte armate di sciabole fatte di maiali. La battaglia tra i due è cruenta e semina morte, fin quando arriva Natale in aiuto di Carneficina e lo porta alla vittoria. Per Quaresima invece c’è la condanna all’esilio, che dura un anno intero, ad eccezione di un periodo di sei settimane e tre giorni. .

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Carnevale ha sempre rappresentato l’abbondanza del grasso, del cibo “che fa gonfiare il ventre e causa flatulenza”… in quei giorni circola cibo in quantità e tutti vanno in giro in cerca di frittelle e dolciumi!

Forse non tutti lo sanno, ma il Carnevale ha rappresentato per molto tempo un periodo importante nell’iniziazione sessuale maschile. Rappresentava l’apprendistato attraverso cui i giovani dovevano passare prima di arrivare al matrimonio e comprendeva tutta una serie di oscenità e scurrilità. A Rouen, ad esempio, la confraternita carnevalesca dell’Abbazia dei Minchioni stabiliva, che nei giorni di grasso, i giovani uomini avevano il “diritto di studiare e mettere a profitto l’arte di amare”.
Ma il carnevale era soprattutto mangiare fino a scoppiare. Bisognava preferire gli alimenti che avrebbero incrementato le anime-peto: quelli flatulenti come i piselli, i fagioli e le fave… Alcuni anni fa a Biella, il lunedì grasso, nel rispetto di una vecchia tradizione gastrorituale, venivano cucinati, in enormi calderoni, fino a dieci quintali di fagioli.


Il carnevale prima di morire faceva testamento, come prima di lui avevano fatto le figure dell’asino o del maiale portati in processione. In una redazione del Testamentum asini del 1470 circa, l’animale offre le parti del suo corpo agli astanti, specificando “culum do sufflantibus” (ossia ai soffiatori rituali), che dovranno preoccuparsi di ricostituire le anime-peto del mondo. Le ossa, il cranio e le pelli dovranno essere conservate in attesa che un’anima, un soffio vitale arrivi a rivivificarle. Il maiale e l’asino, tuttavia, non sono gli unici animali protagonisti di questa festa; l’orso ebbe, infatti, dal medioevo ad oggi un ruolo fondamentale nei riti carnevaleschi. In questi giorni, ad esempio, in Sardegna si svolgono diverse rappresentazioni in cui il carnevale ha la maschera dell’orso… A Fonni (Nuoro) S’Urthu viene tenuto ad una catena da due Buttudos, mentre tenta di imbrattare con la fuliggine le ragazze. S’Urthu, infine, muore ritualmente, per poi risorgere sotto i colpi di cironia (una specie di frustino allusivo del fallo) che i giovani, vestiti di nero e con i visi sporchi di fuliggine, gli danno. Anche qui ritornano i rituali di morte-rinascita e fecondità. Secondo il mito, infatti, questo animale uscirebbe dalla tana la vigilia di San Biagio, il 2 febbraio, giorno della Candelora. Durante il tempo passato nella tana, egli sarebbe stato in contatto con le anime dei defunti, di cui si sarebbe riempito la pancia, per poi “espellerle” al momento del risveglio con l’aiuto di alcune piante lassative…

A partire dal Quattrocento il carnevale subirà una serie di attacchi, soprattutto in seguito ai tentativi di moralizzazione ad opera di uomini come Savonarola e della Controriforma, perché considerata una festa troppo pagana. Ma riuscirà a sopravvivere nelle sue caratteristiche di fondo per moltissimo tempo. Sono le tendenze di questi ultimi decenni, con la scomparsa dell’incidenza della quaresima nella vita quotidiana e con l’affermazione di una cultura che non assegna più lo stesso significato alla ritualità, che hanno fatto dimenticare il senso originario del carnevale.

... e allora in attesa della quaresima festeggiamo il carnevale con una serie i dolci "grassi" e fritti della tradizione. Per iniziare, quelli che io preferisco... gli struffoli napoletani!


Struffoli


Ingredienti: 2 uova, 2 cucchiai di zucchero, 2 cucchiai di olio, 1 cucchiaio di liquore strega, 1 cucchiaio di succo di limone, la buccia grattugiata di 1 limone, 450 gr di farina, 2 bustine di vanillina, 1 cucchiaino scarso di lievito in polvere, 200 gr di miele, 1 lt di olio di arachidi (per friggere).

Impastate sulla spianatoia la farina con le uova, lo zucchero, il liquore strega, l’olio, il succo e la buccia del limone, la vanillina ed il lievito. Lavorate bene l’impasto e lasciatelo riposare per circa un’ora. Fate dei bastoncini del diametro di 1 cm e tagliateli a pezzettini di ½ cm e friggeteli un po’ alla volta, in una friggitrice o in una pentola alta, finché assumono un colore dorato. Deponete gli struffoli fritti su carta assorbente. In una padella capiente fate sciogliere il miele a fuoco dolce e versateci dentro gli struffoli (e se volete un po’ di scorsette di arancia e cedro canditi). Mescolate delicatamente, con una spatoletta di legno, fin quando gli struffoli non siano ben amalgamati con il miele, che nel frattempo ha assunto una consistenza collosa. Rovesciate gli struffoli su un piatto ed aiutandovi con la spatoletta e con le mani unte di olio date la forma che volete (a corona, tonda, ovale…). Decorate con confettini colorati.

lunedì, febbraio 13, 2006

Eros, amore... ed afrodisiologia

Esiodo, contadino e poeta, nella Teogonia, racconta che prima sorse il Caos, che per lui non era una divinità ma soltanto un vuoto “spalancarsi”, esattamente ciò che rimane da un uovo vuoto quando gli si toglie il contenuto. Poi sorse Gea, dall’ampio seno, solida ed eterna sede di tutte le divinità che abitano lassù, sul monte Olimpo, oppure in lei stessa, nella Terra. Per ultimo sorse Eros, il più bello tra gli dei immortali che “scioglie” le membra e soggioga lo spirito di tutti gli dei e di tutti gli uomini. Anche Platone, nel Simposio, il primo saggio sull’eros scritto nella storia dell’umanità, attraverso le parole di Fedro sosteneva che la vita degli uomini non doveva essere condizionata, né dai legami di sangue, né dalle ricchezze, né da altro, tranne che dall’eros. Eurissimaco, a sua volta, segnalava che il dio Eros non limita la sua azione agli dei e agli uomini, ma estende la sua forza a tutto l’universo.
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Nel succedersi della storia, prendendo la parola, Aristofane espone la sua opinione sull’eros. Dice, allora, che inizialmente il corpo umano non era come quello che abbiamo ora, ma doppio. Avevamo, cioè, due corpi uniti in uno. Però, siccome gli esseri umani in un certo momento avevano osato mettersi contro gli dei, Zeus decise di punirli. Così, tagliò a metà i loro doppi corpi, facendo in modo che da ogni corpo venissero fuori due diversi uomini, che completavano l’uno l’altro. Dopo tale suddivisione, ogni corpo ricercava disperatamente la sua altra metà. Quando la trovava, la abbracciava e non faceva nient’altro, tranne aspettare di riunirsi con lei. Siccome le due metà non si interessavano né del cibo, né del sonno, la specie umana rischiava l’estinzione. Zeus, allora, ebbe pietà di loro e posizionò in ognuna delle metà degli organi genitali ed ordinò loro di innamorarsi e di accoppiarsi affinché si riproducessero. Per questo l’eros è la ricerca della nostra metà perduta. Ci innamoriamo in quanto desideriamo ritrovare la nostra unità perduta, in quanto abbiamo nostalgia della nostra vecchia natura completa.
Dopo Aristofane, Agatone sottolineava che l’eros è colui che porta la pace agli uomini e la bonaccia ai mari. E’ lui, inoltre, che fa addormentare i venti ed offre il sonno alle anime afflitte. L’eros, che fa scomparire la ferocia e dona soavità all’animo, è l’ornamento degli dei e degli uomini e tutti noi dobbiamo seguirlo fedelmente e venerarlo in ogni manifestazione della nostra vita.
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Infine, prende la parola il grande sovversivo Socrate. Egli, innanzitutto, dubitava che eros fosse una divinità e sosteneva che fosse un demone, cioè qualcosa a metà tra un dio ed un uomo. I suoi genitori erano Povertà e Poros. Era perennemente povero, trascurato, senza scarpe e senza casa… tutt’altro che bello. Non dormiva su un letto o su un materasso, ma sul pavimento, in campagna, in strada, sulla soglia, avendo come unico compagno la privazione. Era come suo padre, astuto intrappolatore dei belli e degli eletti, audace e coraggioso, macchinatore ed incantatore opportunista, che sapeva “curare” a volte con belle parole ed altre volte con erbe medicinali. Non aveva mai niente in grado assoluto e si trovava sempre in mezzo a cose diverse. Non era né perennemente ricco, né perennemente povero, ma mai ricco e mai povero.
L’eros, continua Socrate, è il desiderio nato all’interno della bellezza. Quando cioè qualcuno sente la necessità di partorire (o un figlio o un capolavoro), per guadagnarsi l’immortalità, si innamora e ricerca qualcosa di bello (sia nel corpo, che nell’anima) per partorirlo dentro di sé. Inoltre, esiste dentro di noi una “scala erotica” che ogni persona assennata deve salire. Nel primo scalino, l’uomo si innamora dei bei corpi. Dopodichè, riscopre la bellezza dell’anima, che è molto più importante di quella del corpo e comincia ad innamorarsi delle belle anime. Continuando, si innamora della conoscenza, della scienza, ed arriva in età avanzata all’ultimo gradino, ove si innamora della bellezza assoluta, dell’immortale ed eterna idea del bello. Ai giovani si adatta l’amore dei corpi, come maestro di bellezza, mentre l’amore per il bello si adatta alle persone in età avanzata.
Voglio sfuggire dalla trappola di annacquare con commenti teorici le diversità e le cose in comune che hanno l’eros e l’amore. Questi due sentimenti, infatti, vengono frequentemente utilizzati per esprimere la stessa cosa sia dalle persone comuni, che utilizzano la parola amore per dichiarare i loro sentimenti erotici, sia da persone che sono in grado di distinguere le diversità tra questi due sentimenti. Quando Stendhal, infatti, dice che “l’amore è il godere, il vedere, il toccare ed il sentire con tutti i tuoi sensi”, si riferisce all’eros che abbraccia tutto l’universo. Anche quando Balzac definisce l’amore come “la poesia dei sensi” sicuramente ha in mente l’eros.
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Nel “Giardino dei profumi” dello sceicco Nefzevi (XVI secolo), Abu el Hailuk era “duro” per trenta interi giorni, poiché mangiava tante cipolle. Durante questo periodo "dormì" con un numero mitico di donne. Forse è meglio non parlare del rapporto della poesia con la vita, ma realmente, che è successo a questo arabo così fortunato? La cipolla ha determinato una sete del corpo e cercava delle compagne per spegnerla? Forse ha partorito dentro di sé la passione per tutte queste donne? O forse le desiderava da prima e la cipolla lo ha aiutato a sentirsi così estasiato al punto da superare i limiti della “carne” sul sentimento?
Queste tre semplici domande delineano i tre corrispettivi approcci all’"afrodisiologia".
Approccio viagra: mangio questo ed in combinazione forse con quello… eccomi qua! Qualcosa come super stallone. Fast food – fast sex.
Approccio voodoo: nelle diverse civiltà ci sono decine e decine di magie e scongiuri per far si che un uomo o una donna si innamori di qualcunaltro. Secrezioni femminili o il mestruo nel caffè, erbette che devono bruciare con olii speciali in una determinata fase lunare, mentre in contemporanea lo stregone recita delle formule magiche. E allora, è difficile, visto che accadono queste cose che avvenga un miracolo con metodiche più semplici… con un determinato piatto…?
Approccio bon viveur: come un bel tramonto in una spiaggia deserta, una passeggiata con la luna piena nel bosco, una bella musica, la sensazione dell’erba sul palmo della mano, un corpo nudo nella penombra, così un pasto ricercato con sapori equilibrati, e con il vino adatto ci fa sentire meglio. E quando ci sentiamo meglio vogliamo avvicinarci alla persone che desideriamo!
Forse sembrerò un po’ cinica con gli approcci precedenti, ma in nessun caso vorrei dubitare dell’ovvio, ossia che l’eros passa per lo stomaco.
E’ difficile in un post parlare dell’afrodisiologia, ma farò uno sforzo cercando di ritornavi nel futuro. Afrodisiaco è per tutti i popoli della terra l’aglio, indipendentemente dal fatto che noi occidentali se lo mangiamo non possiamo dire buongiorno tranne che per telefono. La melanzana era per il mondo ottomano, qualcosa a metà tra viagra e cocaina. Per il resto del mondo era semplicemente indifferente. Notevoli sono le proprietà del prezzemolo. La cannella, il cardamomo, il coriandolo, le uova, il pescato, le noci (chi non conosce l’abbinamento noci e miele?), l’olio di oliva… e mi fermo qui perché in definitiva sembra che non ci sia cibo che non sia stato associato all’eros. Non è che tutte queste cose siano delle favole? Non lo saprei dire. Forse si, forse no. Ma che differenza fa? Dimentichiamo forse che noi essere umani, oltre che di proteine, di grassi e di carboidrati, ci nutriamo anche di leggende? Del resto che cos’è l’eros! Secondo Oscar Wilde un “reciproco equivoco”. E allora, anche se così fosse ci piace equivocarci reciprocamente!
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Orata marinata
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Ingredienti: 1 Kg di orate, 600 ml di olio extravergine di oliva, 80 ml di succo fresco di limone, 50 ml di aceto bianco, sale, pepe, 2 cucchiai di spezie per la marinatura.
Ingredienti per le spezie per la marinatura: 3 cucchiai di coriandolo, 2 cucchiai di anice, 1 cucchiaio di sumak, 3 semi di cardamomo, 3 pezzi di anice stellato, 1/2 cucchiaino di masticha, 3 bucce di arancia essiccata.
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Laviamo le orate e le dividiamo in due filetti ciascuna. Togliamo le spine e la pelle. Mescoliamo l'olio, il limone, l'aceto, il sale, il pepe e i 2 cucchiai di spezie per la marinatura. Deponiamo i filetti nella marinatura e li lasciamo cuocere in un ambiente fresco per circa due ore, poi li mettiamo in frigorifero. Serviamo i filetti tagliandoli a fettine sottili.
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Con questo piatto vedo bene un Athiri della mia amata isola Santorino, in quanto equilibria il sapore aspro della marinatura ed avvolge le spezie.

lunedì, febbraio 06, 2006

Weekend ad Atene

Atene… il solo pronunciare il suo nome basta ad evocare storia e mito! Ogni volta che ci torno la trovo sempre uguale e sempre diversa… Uguale perché niente potrà mai annullare ciò che millenni di storia hanno plasmato nell’animo dei greci e nello spirito di questa città! Diversa perché negli ateniesi non si è mai spento il desiderio di far tornare la loro città il faro di civiltà e bellezza che era stata un tempo!
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Salire sull’Acropoli mi lascia sempre senza fiato, come la prima volta… attraversare i Propilei, con le sue candide colonne di marmo, suscita una grande emozione! Credi di essere tu a visitare l’Acropoli, ma in realtà è lei che ti osserva, che misura il fondo della tua anima. Quassù il vento, che non smette mai di soffiare, può raccontarti storie incredibili… di uomini grandi… e di uomini comuni, che qui hanno lasciato la loro preghiera! Solo osservando il Partenone si capisce il significato di perfezione, misura ed armonia… è il Tempio perfetto, il metro del mondo! Nonostante sia sempre popolato da una moltitudine di gente, se lo avvicini con amore, ti sembrerà deserto. E guardando la delicata perfezione delle Cariatidi posso capire come Lord Elgin, ebbro di passione, non abbia resistito al desiderio di portarsene via una.
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La vista della città dal Licabetto provoca un senso di smarrimento… tutto intorno un’infinità di case bianche a perdita d’occhio… e verso ovest, come un’oasi nel deserto, l’Acropoli si staglia tra cielo e mare, che al tramonto riflettono i raggi rosso fuoco del sole e spandono un bagliore dorato che ti avvolge e ti ipnotizza... e non puoi fare a meno di smettere di guardare e di perderti davanti a tanta bellezza. Il mito racconta che Atena per la costruzione dell’Acropoli avesse scelto una roccia più alta di quella su cui sorse, ma nel tragitto da Pallene, a causa della sua ira nei confronti delle figlie di Cecrope, l’avrebbe lasciata cadere nel luogo dove ancora oggi si trova… con il nome di Licabetto.

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Ancora una volta non ho saputo resistere al fascino di Kolonaki, il quartiere più vivace e commerciale della città, dove tutti gli ateniesi più facoltosi fanno shopping in boutique lussuose, passeggiano lungo le strade affollate e prendono il caffè in una delle tantissime caffetterie alla moda… già perché il caffè, per il greco di oggi, è ciò che l’agorà fu per gli ateniesi dell’antichità, è un punto d’incontro, di discussione, di confronto… e di approccio amoroso.

Voula e Panagiotis

Infine, per chiudere in modo speciale il mio soggiorno, la mia amica Voula mi ha portato a visitare Capo Sounio… uno dei luoghi più belli che abbia mai visto. Il capo, all’estremità meridionale dell’Attica, si trova su un promontorio a picco sul mare… “il promontorio sacro di Atene” che Omero cita nell’Odissea! E’ qui che Egeo, disperato perché credeva suo figlio Teseo morto, si gettò nel mare, a cui fu dato il suo nome. Ed il soffio del vento, insieme al lamento delle onde che si infrangono sulle rocce, sembra che piangano ancora la sua morte. Poseidone non poteva scegliere altro luogo all’infuori di questo per costruire il suo tempio. La vista del mare e delle isole è, infatti, qui avvolta da una luce quasi surreale, che al tramonto è un’esplosione di riflessi dorati… “Quella luce accecante, così trasparente e impenetrabile, così adatta a sottolineare i contorni delle cose, ma anche ad animarli, a risuscitare l’anima segreta…” come dice Franco Loi.

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Durante il soggiorno ad Atene non potevo non fare una passeggiata nella Grecia dei sapori di 2500 anni fa, con le specialità più rinomate dell’epoca, adattate all’oggi con grandissimo successo e che dimostrano inequivocabilmente il diacronismo dell’antica cucina greca.

L’idea dell’ “Αρχαίων Γεύσεις” è quella di far assaggiare ciò che i greci antichi mangiavano, nella stessa modalità in cui lo mangiavano… senza forchetta, solo con cucchiaio e coltello… in poche parole lezioni storico-gastronomiche nello scenario della Grecia antica.
Un team di studiosi e di ricercatori di manoscritti antichi ha cercato fonti riguardanti gli antichi simposi (banchetti) greci, trovando risposte su come mangiavano Platone ed Aristotele.
L’atmosfera è profumata di antico, con decorazione povera, in cui dominano la pietra, gli affreschi e gli archi… l’elemento greco antico si trova dappertutto in modo discreto senza diventare kitch e ti conduce ad un appuntamento con la Grecia dei sapori dell’epoca di Pericle.
Nell’antichità non si conoscevano le patate, il riso, lo zucchero, i pomodori e gli ingredienti principali erano rappresentati dalla carne e dal pesce accompagnati dalle verdure, dall’orzo, dal grano macinati grossolanamente e dal miele.
Il menù dei piatti è pieno di note bibliografiche che rimandano alla fonte del piatto in questione.
Nei primi tre volumi dei Deipnosofisti si fa riferimento al vino. In accordo a questo “Αρχαίων Γεύσεις” produce il suo vino e dispone di varie qualità di vino alla mescita bianco, rosso, di orzo e lo squisito “οινόμελο” (vino speziato al miele) offerto all’arrivo.
In sottofondo si ode una musica rappresentativa di strumenti antichi, che rilassa e accompagna il cibo senza disturbare la comunicazione o la conversazione degli ospiti.
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In questo viaggio unico nel gusto si deve assaggiare “κωλή εριφίου” (coscia di capretto con purè di ceci e porri, con formaggio, aglio e miele), “κρεωκάκκαβο” (pancetta di maiale con salsa agrodolce di miele, aceto, timo, purè di ceci ed aglio), “πρασσαία” (cavolo, rucola, sedano, asparagi, uova, pinoli, noci, uvetta, melagrana), “Τεύθις οπτή” (calamaro ripieno con spezie, verdure e formaggio alla griglia) e “Δελφάκειον οπτόν” (porcellino ripieno con formaggio, uova, fegatini, mele, castagne, pinoli, uvetta e spezie). Non bisogna dimenticare poi i “μελιτώματα” – dolcetti finali – come “ακρόδρυα παντανάμεικτα” (prugne secche, fichi secchi, noci, mandorle, datteri, arachidi, con miele dell’Attica con o senza yogurt), “σταιτίτας πλακούς” (tipo di crepes con farina e miele).
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Molto interessante e carina l’idea degli spazi privé (ανακλίντρων) ove una persona del gruppo viene votata come “συμποσίαρχος”, ossia capo del simposio, responsabile dei convitati. Negli anaklitri, inoltre, c’è l’occasione unica di ascoltare dal vivo la musica dell’avlitrida o del citaredo.
Il fascino del pensiero che in nessun altro luogo potete trovare ricette di 2500 anni fa renderà la vostra serata indimenticabile.
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venerdì, gennaio 20, 2006

Invenzioni e cucina

Il "bain marie"
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Se non scopriamo qualcosa di piacevole, almeno scopriamo qualcosa di nuovo” aveva detto Voltaire, esprimendo il suo desiderio per ancora più scoperte nell’ambito delle scienze. Nel caso di Maria l’ebrea però le cose sono un po’ diverse, in quanto questa splendida signora, che visse ad Alessandria d’Egitto nel periodo ellenistico, ha scoperto molteplici cose, alcune delle quali ancora oggi non sono state superate da nuove scoperte e tutto questo grazie a coloro che anche se non scoprono qualcosa di nuovo, almeno scoprono qualcosa di piacevole: i professionisti della cucina.
Maria o Miriam è colei che ha dato il suo nome all’apparecchio “bain marie”, ossia il doppio bollitore, senza il quale sarebbe assolutamente impossibile la preparazione di piatti che conservano il sapore inalterato dell’ingrediente principale!
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Maria, non ha scoperto il doppio bollitore solo per preparare le sue creme senza che loro impazziscano, o per far sciogliere il cioccolato senza che si alteri la sua composizione, o per riscaldare i suoi cibi senza distruggerne il sapore, ma per facilitare il suo lavoro in laboratorio.
Della “madre dell’alchimia” ci parla Zosimo da Panapoli d’Egitto, alchimista, che scrisse in greco il manuale più antico di alchimia. Zosimo, visse cinquecento anni dopo Maria, quindi le informazioni sulla sua vita sono coperte dalla nebbia del mito che… si è addensata con il passare del tempo, in quanto più tardi si è conferita all’alchimia un carattere metafisico, che inizialmente, all’epoca di Maria l’ebrea, non aveva…
Per la sua vita quindi si possono fare solo delle ipotesi. Visse attorno al 300 a.C., e se fosse veramente ebrea non lo sappiamo, semplicemente Zosimo la definisce “sorella di Mosè”. Lavorò poco dopo Euclide e si suppone avesse conosciuto Archimede ad Alessandria. Non c’è nessuna prova che dimostri che Maria si fosse interessata dell’alchimia metafisica, al contrario, il fatto che fondò una scuola di alchimia per tramandare le sue conoscenze, per lo più sugli strumenti che inventò, ci fanno pensare che fosse una scienziata, pioniere della meccanica della chimica.
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L’apparecchio che utilizziamo oggi in cucina veniva chiamato nell’antichità κηρoτακίς(Kerotakis), in quanto il doppio bollitore conservava calda la cera che utilizzavano i pittori nella tecnica ad encausto (una tecnica pittorica eseguita su tavola o su muro, che si avvale della cera come componente del legante), di cui un esempio sublime sono i celebri ritratti del Fayum. Secondo un’altra interpretazione il doppio bollitore veniva chiamato κηρoτακίς in quanto era utilizzato per bagnare i metalli e definivano "κέρωμα" il bagno in quanto i vapori condensandosi avevano la consistenza della cera. Infatti, il "Kerotakis" consisteva in una sfera o in un cilindro con la calotta emisferica messa sul fuoco, nella cui parte bassa venivano riscaldate soluzioni di mercurio, di solfuro di arsenico e zolfo; alla sommità del cilindro erano posti i metalli da trattare; i vapori dello zolfo attaccavano il metallo liberando solfuro nero (il nero di Maria) che si pensava fosse il primo stadio della trasmutazione. Continuando a riscaldare si poteva ottenere una lega simile all'oro la cui composizione variava a seconda dei metalli posti sul piatto o del mercurio e dei composti dello zolfo usati. Inoltre, la parte superiore del bollitore in base ai principi di Ermete Trismegisto doveva essere sigillato, doveva cioè essere “ermeticamente chiuso”. Il Kerotakis fu anche usato per l'estrazione degli oli vegetali come ad esempio l'acqua di rose.
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L’introduzione del termine “bagnomaria” nella lingua italiana è, infatti, legato alla diffusione cinquecentesca dell’alchimia, a partire dalla vulgata del trattato di DiscorideDe Materia Medica (anno 1557) ad opera del veneziano Pier Andrea Mattioli.
Un’altra versione, meno colorata e fiabesca, sostiene che bagnomaria derivi dal termine francese “bain marie”, che pare abbia avuto origine dalla scoperta che l’acqua di mare portata ad ebollizione evaporasse meno dell’acqua dolce. Da qui il nome “balneum maris” cioè bain marie, tradotto malamente in italiano bagnomaria, invece di bagno di mare.
In cucina il metodo bagnomaria viene utilizzato per mantenere caldo il cibo senza continuare il processo della cottura, per sciogliere il cioccolato senza alterare la sua composizione e per fare delle creme che sono estremamente sensibili alla temperatura ed in forno serve a dare una cottura uniforme a soufflé e budini, come ad esempio il New York cheese cake ed il creme caramel.
Gli apparecchi di bagnomaria professionistici sono molto cari e destinati per lo più a ristoranti. A casa è molto semplice preparare la variazione dell’apparecchio utilizzando una casseruola nella quale verseremo dell’acqua ponendo sopra questa una ciotola di metallo. Facciamo attenzione a non ostacolare la fuoriuscita del vapore e a non permettere all’acqua di bollire. Nella tecnica di bagnomaria, infatti, l’acqua non deve bollire, è un principio basilare.
La ricetta che vi propongo necessita di riso jasmine (Khao Hom Mali, o Thai Jasmine rice) commercializzato internazionalmente con il marchio di Thai Hom Mali, recentemente diventato caso di biopirateria. Viene coltivato in Thailandia , ha chicchi allungati con un aroma discreto ed assomiglia abbastanza al basmati, ma quest’ultimo ha un’aroma fruttato e non lascia il retrogusto fiorito di quello jasmine.
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Budino di riso jasmine con salsa di caramello al limone


Ingredienti: 1 tazza di riso jasmine, 1 cucchiaio di scorza di limone grattugiata, 2 tazze di acqua, 2 tazze di latte, ¾ di tazza di zucchero, 2 uova intere e 2 tuorli, 1 tazza e mezzo di panna da cucina.

Ingredienti per la salsa: 1 tazza di zucchero, ¼ di tazza di acqua, ¼ di tazza di succo di limone tiepido.

Fate bollire a fuoco basso il riso con la scorza grattugiata di limone, l’acqua e metà della tazza di zucchero mescolando continuamente per circa 20 minuti finché il riso assorba tutta l’acqua. Aggiungiamo metà della tazza di latte, finché anche questo venga assorbito. Ripetiamo con il resto del latte e togliamo dal fuoco.
Mescoliamo le uova intere, i tuorli ed il quarto di tazza di zucchero avanzato. In una casseruola media facciamo bollire la panna a fuoco medio. Dopodiché lentamente e con attenzione aggiungiamo un po’ di panna calda nel recipiente con le uova e lo zucchero, per intiepidirlo un poco per non fare impazzire la crema quando lo trasporteremo nella casseruola con la panna calda. Mescoliamo nella casseruola media la panna, nelle quale abbiamo aggiunto la crema. Facciamo bollire per 2 o 3 minuti finché non si addensi.
Mescoliamo poi la crema con il riso molto bene e versiamo tutto in delle cocottine e deponiamole in una teglia, che avremo riempito di acqua calda. L’acqua nella teglia deve raggiungere la metà dell’altezza delle cocottine. Mettiamo in forno preriscaldato a 180° e facciamo cuocere per 45 minuti. Togliamo le cocottine dal bagnomaria, facciamole raffreddare e la mettiamole in frigorifero.

Per la preparazione della salsa, mescoliamo lo zucchero con l’acqua in una piccola casseruola e facciamo cuocere a fuoco basso per circa 10 minuti. Lo sciroppo lo mescoliamo solo all’inizio e poi lo lasciamo, perché c’è pericolo che cristallizzi. Togliamo dal fuoco e aggiungiamo il succo di limone tiepido. Mescoliamo molto bene. Rimettiamo la casseruola sul fuoco per pochi minuti, finché lo zucchero non si scioglie completamente e la togliamo dal fuoco e lasciamo raffreddare a temperatura ambiente.

Per servire togliamo il budino dalla cocottina, deponiamolo al centro del piatto e cospargiamolo con la salsa.

domenica, gennaio 15, 2006

Pandelis... e il Mantì

L’ingrediente principale degli ultimi post, la melagrana, mi ha fatto tornare in mente i sapori e le sensazioni lasciatemi da una giornata indimenticabile passata a Costantinopoli.

La languidezza dell’oriente e l’atmosfera che viene effusa dalle spezie del bazaar egizio sottostante, associate al luccichio delle famosissime mattonelle di Nicea (Iznic), che decorano l’interno… alle cupole con decorazioni bizantine… ai lampadari dalle mille gocce di cristallo… al panorama sul golfo del Corno d’Oro, con le centinaia di pescatori dilettanti protesi sui pontili… alla vista del ponte Galata… ti portano ineluttabilmente ad abbandonarti a tutto ciò che promette salute ed vigore dell’anima cioè… alla quintessenza del gusto e alla multiforme arte culinaria del ristorante Pandelis.

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La storia di questo ristorante ha inizio un secolo fa. All’inizio del 1900 il signor Pandelis, un greco di Costantinopoli, innamorato dell’arte e della qualità delle materie prime, decise di aprire il suo strettissimo ristorante nel vecchio mercato del pesce. Così sorge una personalità culinaria, sinonimo del gusto della cucina costantinopolitana. Dopo un cammino brillante nel corso dei decenni, tre ristoranti con fama internazionale, Pandelis si stabilisce definitivamente nel 1955 nella sua posizione attuale, sopra il mercato egizio delle spezie (Misir Carsisi), alla fine del ponte di Galata, all’ingresso del golfo del Corno d’Oro. L’edificio che ospita il ristorante fu costruito nel 1664 sui resti del mercato coperto bizantino, chiamato “Makra Emvolos”, ma acquisisce il nome odierno di mercato egizio delle spezie (Misir Carsisi) nel XVIII secolo, dopo che vi furono aperti dei negozi i cui prodotti venivano principalmente dall’Egitto.


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Gli orribili eventi del 6 e 7 Settembre del 1955 (durante i quali tutti i cittadini turchi di origine greca subirono saccheggi, furti e maltrattamenti) colpirono in modo grave ed irreparabile il signor Pandelis e il suo ristorante. Il suo dolore e la sua delusione per la perdita dei sacrifici di tutta una vita e per l’ingratitudine di tutti coloro che lui aveva servito, lo portarono a lasciare tutto e a tornare in Grecia. Il prefetto e l’allora sindaco di Costantinopoli decisero che un capitolo così importante della cucina della loro città non poteva chiudersi così. Gli offrirono quindi il primo piano, sopra l’ingresso, del bazaar egizio con una vista sia sul mercato che sul golfo, sul ponte e sul Bosforo. Da allora funziona come il principale punto di attrazione del turismo culinario della città e la sua fama si è diffusa nuovamente in tutto il mondo.




Da allora ha brindato innumerevoli volte con il suo bicchiere da raki con primi ministri, capi di stato, re, ministri, scrittori, poeti, attori, ma anche con comuni buongustai, commercianti della piazza, ma soprattutto con amici… “i miei amici e la soddisfazione che gli offro equivalgono per me a tutto il denaro del mondo” diceva. Non è mai diventato ricco e la sua vita iniziava e finiva con il suo lavoro. Era qui che Mustafa Kemal Atatürk si incontrava con i suoi amici e chiacchierava ore ed ore. Ed è sempre a Pandelis che Eleftherios Venizelos nel 1933, quando venne in Turchia per firmare l’accordo di pace, regalò la sua tabacchiera d’oro.

Capelli bianchi come il cotone, sopracciglia folte, mani d’artista… questo è Pandelis, che passa lui stesso dal servire alla cucina, ove come mago del medioevo aggiunge sapore, colore, profumo alle sue “composizione” e nel contempo litiga con i suoi aiutanti, da ordini ai suoi camerieri e scherza con i suoi clienti.


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Pandelis non è un cuoco, ma è un artista che unisce conoscenze, voglia, inventiva, audacia ed ispirazione nel mescolare gli ingredienti! Nessuno mai ha dubitato che da Pandelis avrebbe mangiato quanto di più squisito quel giorno si potesse trovare sul mercato di Costantinopoli e lui con cura unica avrebbe preparato… spigola al cartoccio, pollo di primavera, borek di melanzane, agnello al forno con puré di verdure, puré di melanzane con pezzetti di carne di vitello al sugo, ineguagliabili dolci e kourabiedes di mandorle con burro fresco… per un totale di ottanta piatti, che costituiscono il suo menù, che va sempre di pari passo con i prodotti di stagione. Fino al momento in cui la vecchiaia lo ha dominato, lui personalmente sceglieva ogni giorno, di prima mattina, i pesci più freschi, le carni migliori e la verdura più viva dai carri o dai camion, prima ancora che scaricassero. I suoi piatti sono stati definiti “sinfonie di gusti” e lui stesso “rettore dell’arte dell’accademia del gusto”. La sua cucina rappresenta una “scuola” di gastronomia ed un esempio tipico di cucina della tradizione ottomana di origine greca. I rappresentanti più famosi della odierna cucina turca definiscono Pandelis un maestro ed il più grande conoscitore di sapori della Turchia del XX secolo.

Dopo questa narrazione storica, parlerò del piatto di Pandelis che più mi aveva colpito e che avevo ordinato perché da tempo non mangiavo la pasta. Si chiama Mantì ed è una “versione” turca dei ravioli.
Mantì vuol dire “vestito corto” ed era un piatto molto amato dai greci di Costantinopoli. Facendo una ricerca su questo piatto, ho trovato un racconto colorato, frutto dei ricordi di un bambino per il suo piatto domenicale preferito… “stendevano la pasta, lasciandola abbastanza spessa, la tagliavano a quadrati di 4 0 5 cm di lato e mettevano un cucchiaio di carne macinata precedentemente preparata, in ognuno dei quadrati, chiudendo le due estremità e formando delle barchette, che ponevano sul sinì (teglia con il bordo basso) e mandavano al forno. Quando le barchette stavano per cuocersi le bagnavano con il brodo di ossa, che avevano preparato prima a casa, cosicché cuocendo lo assorbissero tutto. Portato a casa, si metteva il sinì al centro del tavolo ed ognuno prendeva con la mano una barchetta augurandole un buon viaggio nelle onde del suo intestino”.
Ci sono due versioni di mantì, una con yogurt e l’altra con succo di melagrana.

Mantì con succo di melagrana.


Ingredienti per la pasta: ½ kg di farina di grano duro, 1 uovo, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaino di aceto, 1 cucchiaino di sale ed 1 tazza di acqua tiepida.

Ingredienti per il ripieno: ½ kg di carne macinata di manzo, 1 cipolla, 1 ciuffo di prezzemolo, 80 ml di cognac, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaino di sale, una presa di pepe, una di cannella ed una di chiodi di garofano in polvere.

Ingredienti per il brodo: 3 bicchieri di acqua, carne con il suo osso (che potete sostituire con due dadi di brodo di carne a cui aggiungerete 1 cucchiaio di burro), sale e pepe.

Ingredienti per servire: succo di 4 melagrane.

Preparate la pasta, che poi cospargerete di farina e coprirete con uno strofinaccio umido e lascerete riposare per un’ora. Stendetela fino a quando non abbia lo spessore di mezzo centimetro, tagliatela in strisce di 10 cm di larghezza e poi ogni striscia in quadrati.
Preparate il ripieno, facendo soffriggere in una casseruola la cipolla tagliata finemente con la carne macinata ed aggiungendo il prezzemolo, il sale, il pepe, la cannella, i chiodi di garofano ed il cognac. Toglietelo da fuoco non appena avrà assorbito tutto il sugo.
Riempite i quadrati di pasta con un cucchiaio di ripieno e chiudete o come raviolo o come barchetta, unendo insieme le due estremità.
Fate bollire per tre minuti i ravioli o le barchette nel brodo di carne, che avrete preparato prima, e trasportateli delicatamente in una teglia imburrata e preriscaldata. Mettete in forno caldo a 180° per cinque minuti.
Nel frattempo versate il succo delle 4 melagrane in un tegame e lasciatelo cuocere finché non si riduca della metà, dopodichè versatelo in una ciotola e mettetelo in frigorifero
Il piatto va servito con questo concentrato, messo separatamente o cosparso sui “ravioli”.

Mantì con lo yogurt

La ricetta originale proviene da Cesarea ed è in questo modo che preparano il Mantì a Costantinopoli.

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Ingredienti per la pasta: ½ kg di farina di grano duro, 1 uovo, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaino di aceto, 1 cucchiaino di sale ed 1 tazza di acqua tiepida.

Ingredienti per il ripieno: ½ kg di carne macinata di manzo, 1 cipolla, 1 ciuffo di prezzemolo, 80 ml di cognac, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaino di sale, una presa di pepe, una di cannella ed una di chiodi di garofano in polvere.

Ingredienti per il brodo: 3 bicchieri di acqua, carne con il suo osso (che potete sostituire con due dadi di brodo di carne a cui aggiungerete 1 cucchiaio di burro), sale e pepe.

Ingredienti per la salsa: ½ Kg di yogurt stranghistò, 3 spicchi di aglio schiacciato, 1 cucchiaino di sale, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaino di aceto, 1 cucchiaio di paprica dolce, 1 presa di cumino in polvere, una presa di menta essiccata.

Preparate la pasta, che poi cospargerete di farina e coprirete con uno strofinaccio umido e lascerete riposare per un’ora. Stendetela fino a quando non abbia lo spessore di mezzo centimetro, tagliatela in strisce di 10 cm di larghezza e poi ogni striscia in quadrati.
Preparate il ripieno, facendo soffriggere in una casseruola la cipolla tagliata finemente con la carne macinata ed aggiungendo il prezzemolo, il sale, il pepe, la cannella, i chiodi di garofano ed il cognac. Toglietelo da fuoco non appena avrà assorbito tutto il sugo.
Riempite i quadrati di pasta con un cucchiaio di ripieno e chiudete o come raviolo o come barchetta, unendo insieme le due estremità.
Mettete i “ravioli” in una teglia imburrata e preriscaldata. Mettete in forno caldo a 180° per trenta minuti circa. Lasciateli raffreddare. Versateci sopra il brodo bollente ed appena lo assorbono (5-10 minuti) versatevi sopra la salsa di yogurt, che avrete preparato in precedenza mescolando insieme lo yogurt con gli spicchi di aglio, il sale, l’olio, l’aceto, il cumino e la menta, e cospargeteli con la paprica dolce.

giovedì, gennaio 12, 2006

...ancora sulla melagrana

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Insalata di lattuga, olive verdi e melagrana.
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Ingredienti: 300 gr di lattuga finemente tagliata, 250 gr di olive verdi, 2 pomodori di media grandezza, 4 cipollotti, 1 aglio fresco (a piacere), ½ tazza di noci tritate, i chicchi di ½ melagrana, 4 cucchiai di Ξινό ροδιού (vedi ricetta seguente) o 5 cucchiai di limone, 1 o 2 cucchiai di olio extravergine di oliva, sale e pepe nero macinato fresco.
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Tagliate le olive a pezzetti e mescolateli con la lattuga ed i cipollotti finemente tritati. Aggiungete i pomodori che avrete pelato e tagliato a cubetti. Unite, infine, le noci, i chicchi di melagrana, sale, pepe e Ξινό ροδιού.
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Ξινό ροδιού
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Lo Ξινό ροδιού (letteralmente in greco “Aspro di melagrana”) può essere utilizzato al posto dell’aceto per condire le vostre insalate.

Ingredienti: 15 melagrane mature, 2 melagrane acerbe, 3 cucchiai di succo di limone, 1 cucchiaio di succo di arancia, 1 cucchiaino di aceto ed 1 cucchiaino di zucchero.

Raccogliete i semi ed ottenete il succo delle melegrane seguendo i consigli del post del. Versate il succo in una casseruola insieme allo zucchero, all’aceto, al succo limone e a quello di arancia. Fatelo bollire a fuoco alto finché diventa denso e di colore scuro. Lasciatelo raffreddare e travasatelo in una bottiglia di vetro. Conservate in frigorifero. Si conserva tranquillamente per un anno.

Sciroppo speziato di melagrana.

Ingredienti: 4 o 5 melagrane mature, 1 tazza di zucchero, due semi di anice stellato, 1 noce moscata, 1 pezzo di masticha, e alcune mandorle pelate per decorare.

Raccogliete i semi ed ottenete il succo delle melegrane seguendo i consigli del post del. Versate il succo in una pentola, insieme allo zucchero e alle spezie. Fate bollire a fuoco alto per 10 minuti. Lasciatelo raffreddare e colatelo per eliminare i residui delle spezie. Versatelo in una brocca ed aggiungete acqua in base alla liquidità che desiderate. Va servito freddo, decorato con le mandorle tagliate a fettine sottili.

domenica, gennaio 08, 2006

Il pudding di Noè

Oggi e nei prossimi giorni posterò altre ricette in cui la melagrana sarà l'ingrediente "protagonista", a dimostrazione del fatto che questo frutto tuttora così pieno di simbolismi e così importante nella gastronomia mediorientale sia invece a torto trascurato in quella moderna occidentale.
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Ingredienti: 250 gr di grano, 2 cucchiai di fagioli bianchi piccoli, 2 cucchiai di ceci, 2 cucchiai di uva sultanina, 1 cucchiaio di pinoli, 2 cucchiai di noci tagliate a pezzi grossi, 1 cucchiaio di mandorle pelate e tritate, 2 cucchiai di buccia d'arancia grattugiata, 1 cucchiaio di sesamo, 2 cucchiai di farina di riso, 2 albicocche secche finemente tritate, 1 tazza di chicchi di melagrana, 1 Kg di zucchero, 2 litri di acqua, 1 litro di latte.
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Mettete separatamente in tre ciotole i ceci, i fagioli ed il grano a bagno in acqua per 10 ore. Scolateli ed asciugateli con un panno di cotone. Fate bollire in pentole separate i fagioli per 30 minuti, i ceci per 25 ed il grano per almeno 45-50 minuti. Scolateli e metteteli da parte.
In una casseruola fate bollire insieme il latte, l'acqua e lo zucchero per 20 minuti, aggiungete la buccia grattugiata dell'arancia, il grano, i fagioli, i ceci e l'uvetta. Fate bollire a fuoco basso per 10-15 minuti, mescolando di continuo con un cucchiaio di legno.
In una tazza diluite la farina di riso con un po' di acqua tiepida e versatela nella casseruola, continuando a mescolare. Appena inizia ad addensarsi, versate le mandorle, le noci e le albicocche. Continuate a mescolare per altri 6-10 minuti.
Versate il dolce in delle piccole ciotole, lasciandolo raffreddare e cospargete con sesamo, con mandorle finemente tritate e con i chicchi di melagrana.