martedì, giugno 20, 2006

I sapori dell'Islam

La cucina araba ha “tre anime” che la compongono: ci sono i Paesi del Maghreb, quelli del Medio Oriente e l’Egitto (che può essere considerato il ponte tra le altre due cucine). E’ ovvio che tra queste realtà culinarie molti sono i tratti in comune, ma molte le differenze, dovute ad una serie di fattori storici, economici e culturali.
A partire almeno dall’VIII secolo e poi per tutto il Medioevo, il mondo musulmano è stato caratterizzato da una grande mobilità, che ha favorito la diffusione dei suoi costumi, anche alimentari, in tutte le regioni con cui ebbe dei contatti. Nel contempo gli arabi assorbirono dalle altre culture costumi diversi, l’importante è che essi rispettassero il concetto di halal e di haram, ossia di lecito e di proibito. Due erano i divieti fondamentali: il consumo di carne di maiale (più in generale la carne non macellata secondo le regole rituali) e di bevande alcoliche. Questi veti a ben guardare avevano tutte ragioni igieniche. La cucina era, infatti, per gli arabi strettamente connessa alla salute. Non a caso vi sono numerosi trattati di medicina che dedicano ampio spazio all’alimentazione, dettando regole ancora attuali, come il rispetto della stagionalità.

L’alimento principe era rappresentato dalla carne, sopratutto quella di agnello o di montone, raramente di bovino. Gli animali dovevano essere macellati unicamente per sgozzamento ed essere sani e non destinati al lavoro o alla riproduzione. Tutto questo avveniva sotto la sorveglianza di un ispettore, il muthasib, che vigilava sul rispetto delle norme igieniche e sulle frodi alimentari. Diffuso era anche il consumo di cereali, in modo particolare grano ed orzo, ed importanza fondamentale aveva il pane, che ogni famiglia preparava per il proprio fabbisogno. Erano conosciuti anche il bulgur (grano spezzato) ed il couscous, che era una versione meno raffinata di quella attuale. Le popolazioni che vivevano lungo le coste facevano anche grande consumo di pesce. Ma molto apprezzato era anche il pesce d’acqua dolce, anche se ritenuto meno pregiato. Si faceva, inoltre, ampio uso di verdure, legumi (sopratutto lenticchie) e frutta, sia fresca che secca.

Largamente impiegate nella cucina araba erano le spezie che, dato il loro elevato costo, erano appannaggio dei ricchi. Ai meno abbienti erano riservati l’aglio, la menta e l’aneto, diffusamente usati per insaporire diverse vivande. I prodotti caseari, molto apprezzati soprattutto dalle popolazioni nomadi, dedite all’allevamento, furono durante il Medioevo sempre meno utilizzati, anche se il latticello ed il formaggio bianco erano ingredienti usati in parecchi piatti. Si condiva in genere con olio di oliva o di sesamo, ma per cuocere era spesso impiegato il grasso estratto dalla coda del montone. Largamente consumati erano i dolci, tutti a base di miele e frutta secca.

I canoni alimentari della cucina islamica moderna non sono molto differenti da quelli in uso nel Medioevo. Inoltre, è doveroso sottolineare che, con l’avvento dell’Islam, gli Europei, pur continuando a consumare cibi introdotti dagli arabi, come gli agrumi, il riso ed i carciofi, cercarono di discostarsi dalle abitudini alimentari di questi ultimi, per sottolineare la loro diversità dai “mori”, non riuscendo tuttavia ad arginare gli apporti della cucina araba, che tutt’oggi sopravvivono nella nostra. Tra i piatti simbolo di questa contaminazione c’è il couscous, chiamato anche kuskus, seksu, kesksu, cuscus o cuscussu. Il termine, derivante dalla radice kaskasa, che significa “pestare”, indica una preparazione a base di semola cotta al vapore, condita con uno stufato molto speziato a base do carne, pesce e/o verdure. Piatto di antiche origini, molto diffuso nei Paesi arabi del Nord Africa, che tradizionalmente era servito la notte di lunedì e venerdì, come vuole la Sunna. Ben conosciuto in epoca medievale in Occidente, il couscous fu il cibo che permise la sopravvivenza dei prigionieri europei che ebbero la sventura di cadere nelle mani dei corsari arabi.

Pilastri della cucina araba sono poi il tè ed il caffè, due bevande di cui si diffuse il consumo in Occidente solo nel XVII secolo, mentre in tutto il Medio Oriente e nel Nord Africa erano da secoli popolarissime. In realtà il tè arriva in questi Paesi con le carovane dei mercanti arabi, che arrivavano fino in Cina con i loro commerci. Secondo una delle molte leggende fiorite sull’origine del caffè, pare che questo sia stato scoperto casualmente all’inizio del VII secolo da un pastore di capre yemenita, che per primo avrebbe fatto caso alla particolare vivacità che i suoi animali avevano allorché brucavano i frutti rossi di un arbusto profumato. Secondo altri, il caffè sarebbe originario della regione di Caffa (da cui deriverebbe il nome) e verso il VI secolo sarebbe stato importato nello Yemen. Gli arabi, comunque sia, consumavano il caffè, sotto forma di decotto di foglie e semi (la tostatura e la macinazione dei semi risale solo al Quattrocento), già nell’VIII secolo. Il caffè giunse in Occidente dal Vicino Oriente e dall’Impero Ottomano sul finire del XVI secolo e venne chiamata da molti “acqua nera”, in quanto ritenuta un’invenzione diabolica per i suoi effetti eccitanti e fu solo Clemente VIII, che pare l’amasse in modo particolare, a farne una bevanda cristiana a tutti gli effetti. In Occidente, infatti, molto spesso la Chiesa, nel tentativo di arginare la diffusione di usi culinari islamici, assegnava loro una valenza diabolica, ottenendo però molto spesso l’effetto contrario.

Fu così ad esempio che, attorno alla metà del XII secolo una delle più grandi figure teologiche dell’occidente, Pietro di Mointboissier (1092?-1156), abate di Cluny, credette che l’unico modo, con cui il Cristianesimo avrebbe potuto affrontare l’Islam, sarebbe stata la dimostrazione della nudità dei principi teologici di quest’ultimo e per questo ordinò la traduzione del Corano in latino. In tal modo, però, assieme alla teologia islamica, l’Occidente cristiano venne a conoscenza del significato della “felicità”, espresso nelle descrizioni del paradiso dell’Islam, un luogo ove il ruolo principale lo avevano i sensi. Ma già prima di lui, un ebreo spagnolo che si era convertito al cristianesimo, Petrus Alfonsi, aveva composto una collezione di “leggende dell’oriente” nel tentativo di condanna alla dissolutezza dei maomettani. Questi tentativi si rivelarono vani… il libro andò a ruba in tutta Europa proprio perché descriveva nel dettaglio i piaceri che la vita dopo la morte riservava ai credenti di Maometto…

Era tale l’impressione che agli occidentali cristiani arrecò la descrizione del paradiso dei maomettani, che l’idea di una vita dopo la morte immersa nei godimenti sensuali, in cui trovò un ruolo fondamentale il cibo, si fece largo nei romanzi e nella narrativa fantasiosa dell’epoca. Manoscritti come “La scala di Maometto”, tradotti in latino, francese e spagnolo, circolavano attorno alla metà del XII secolo di mano in mano. “La scala di maometto” era il racconto dell’ascesa del Profeta ai diversi livelli del paradiso. L’immagine principale, in tutti i livelli del paradiso, era costituita dai giardini, ove in ogni angolo si trovava ogni genere di leccornia che mente umana potesse immaginare. Il fedele, avrebbe potuto assaggiare vini aromatici e colorati in innumerevoli varianti ed anche se non fosse bastato tutto ciò, un albero, su ordinazione, avrebbe potuto offrire 70.000 diverse qualità (avete letto bene!) di pietanze. E non si può, infine, far a meno di ricordare “Il giardino profumato” (o meglio Il giardino profumato per la ricreazione dell’anima) composto nel 1519 da Muhammad an-Nafzawi, verosimilmente uno sceicco tunisino. Sembra che an-Nafzawi, condannato a morte dal suo signore, il sultano Adb al-Aziez Farid, ottenesse da questi la promessa di aver salva la vita solo se avesse scritto qualcosa che risvegliasse i suoi sensi sopiti. Nacque così il primo testo della letteratura erotica araba, in cui, accanto alla precisa descrizione di rapporti sessuali, figurano una serie di prescrizioni igieniche e cosmetiche, nonché una buona quantità di ricette destinate “ad aumentare il vigore nel coito”.

… e dopo tanto parlare ecco una ricetta a base di tahina, miele ed olio di sesamo… ingredienti tipici della cucina islamica.

Crema di cioccolato con tahina

Ingredienti: 150 gr di tahina, 50 gr di miele, 40 gr di olio di sesamo, 50 gr di cioccolato fondente al 60-70% sciolto a bagnomaria, 50 gr di burro ammorbidito.

Mescoliamo la tahina con il miele e l’olio di sesamo. Aggiungiamo il cioccolato sciolto ed infine il burro. Quando la crema risulterà ben amalgamata versiamo nelle coppette e lasciamo in frigo almeno per un’ora.

5 commenti:

Anonimo ha detto...

ΤΕΛΕΙΟ!!!
PERFETTO!!!!

fiordizucca ha detto...

ciao cara. questa crema al cioccolato e tahina é davvero un'idea eccezionale. proveró a replicare. baci

Sandra ha detto...

Fantastica!! Immagino anche il sapore, proprio quello che ci vorrebbe ora...
:)

Anonimo ha detto...

....φαντάσου ένα πρωινο με φρυγανιτσες η ζεστο ψωμακικαι κρεμα σοκολάτα με ταχίνι!!!!!
Σε μια παραλία της ΣΥΡΟΥ η της ΥΔΡΑΣ η της ΚΕΑΣ η οτι προτιμας!!!!
ci vediamo T.A.M.

Anonimo ha detto...

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